PAPA PIO XI LETTERA ENCICLICA LUX VERITATIS Venerabili
Fratelli, salute e Apostolica Benedizione. La
storia, luce di verità e testimonio dei tempi, se rettamente consultata e
diligentemente esaminata, insegna che la promessa fatta da Gesù Cristo: « Io
sono con voi… fino alla consumazione dei secoli » [1],
non è mai venuta meno alla sua Chiesa e non verrà quindi mai a mancare in
avvenire. Anzi quanto più furiosi sono i flutti dai quali è sbattuta la nave
di Pietro, tanto più pronto e vigoroso essa sperimenta l’aiuto della grazia
divina. E ciò in modo singolarissimo avvenne nei
primi tempi della Chiesa, non solo quando il nome cristiano era ritenuto
delitto esecrabile da punirsi con la morte, ma anche quando la vera fede di Cristo, sconvolta dalla perfidia degli eretici
che imperversavano soprattutto in Oriente, fu messa in gravissima prova.
Infatti, come i persecutori dei cristiani, l’uno dopo l’altro, miseramente
scomparvero, e lo stesso Impero romano cadde in
rovina, così tutti gli eretici, quasi tralci inariditi [2]
perché recisi dalla vite divina, più non poterono succhiare la linfa vitale
né fruttificare. La
Chiesa di Dio invece, fra tante procelle e vicissitudini di cose caduche,
unicamente confidando in Dio, proseguì in ogni tempo
il suo cammino con passo fermo e sicuro, né mai cessò di difendere vigorosamente l’integrità del sacro deposito della verità
evangelica affidatole dal divino Fondatore. Questi pensieri si riaffacciano alla Nostra
mente, Venerabili Fratelli, nell’accingerCi a
parlarvi in questa Lettera di quel veramente faustissimo
avvenimento che fu il Concilio celebrato ad Efeso quindici secoli fa, nel
quale, come fu smascherata l’astuta protervia degli erranti, così rifulse la
inconcussa fede della Chiesa, sorretta dall’aiuto divino. Sappiamo
che per Nostro consiglio furono costituiti due Comitati di uomini
insigni [3], incaricati di promuovere nel modo più
solenne commemorazioni di questo centenario, non solo qui in Roma, capitale
dell’orbe cattolico, ma in ogni parte del mondo. Né ignoriamo che le persone
alle quali affidammo tale incarico speciale si
adoperarono alacremente di promuovere la salutare iniziativa, senza risparmio
di fatiche o di sollecitudini. Di questa alacrità
dunque — assecondata, si può dire, dappertutto dal volenteroso e veramente
mirabile consenso dei Vescovi e dei migliori fra i laici — non possiamo che
grandemente congratularCi, perché confidiamo che ne abbiano a derivare, anche
per l’avvenire, grandi vantaggi per la causa cattolica. Ma
considerando Noi attentamente questo avvenimento
storico e i fatti e le circostanze ad esso connessi, stimiamo conveniente
all’ufficio apostolico affidatoCi da Dio, rivolgerCi personalmente a voi con
un’Enciclica in quest’ultimo scorcio del centenario e nella ricorrenza del
tempo sacro in cui la B. V. Maria per noi « diede alla luce il Salvatore
», e intrattenerCi con voi intorno a questo argomento che certo è della
massima importanza. Nel fare ciò nutriamo ferma
speranza che non solo le Nostre parole torneranno gradite ed utili a voi e ai
vostri fedeli, ma, se esse verranno attentamente meditate con animo
desideroso di verità da quanti Nostri fratelli e figli dilettissimi
sono separati dalla Sede Apostolica, confidiamo che essi, convinti dalla
storia maestra della vita, non potranno non provare almeno la nostalgia
dell’unico ovile sotto l’unico Pastore, e del ritorno a quella vera fede, che
gelosamente si conserva sempre sicura e inviolata nella Chiesa Romana.
Infatti, nel metodo seguito dai Padri e in tutto lo svolgimento del Concilio di Efeso nell’opporsi all’eresia di Nestorio, tre dogmi
della fede cattolica specialmente brillarono agli occhi del mondo nella piena
loro luce, e di essi Noi tratteremo in modo speciale. Essi sono: che in Gesù Cristo unica è la persona, e
questa divina; che tutti devono riconoscere e venerare la B. V. Maria come
vera Madre di Dio; e infine, che nel Romano Pontefice risiede,
per divina istituzione, l’autorità suprema, somma e indipendente, su tutti e
singoli i cristiani, nelle questioni concernenti la fede e la morale. I Per
procedere dunque con ordine nella trattazione, facciamo Nostra quella
sentenziosa esortazione dell’Apostolo delle genti agli Efesini:
« Riuniamoci finché arriviamo tutti all’unità
della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, allo stato di uomo perfetto nella misura che conviene alla piena
maturità di Cristo. Questo affinché non siamo più come fanciulli sballottati dalle onde e
portati qua e là da qualsiasi vento di dottrina, secondo l’inganno degli
uomini, con quella loro astuzia che tende a trarre nell’errore. Al
contrario, vivendo secondo la verità
nella carità, cerchiamo di crescere in ogni cosa verso di lui, che è il
capo, Cristo, dal quale tutto il corpo, ben compaginato
e connesso, mediante la collaborazione di ogni
giuntura, secondo l’energia propria di ogni membro, riceve forza per crescere
in modo da edificare se stesso nella carità » [4].
Le quali esortazioni dell’Apostolo, come furono seguite con sì mirabile
unione d’animo dai Padri del Concilio di Efeso, così vorremmo che tutti, senza
distinzione, facendo tacere ogni pregiudizio, le ritenessero come a sé
rivolte e le mettessero felicemente in pratica. Come è
universalmente risaputo, autore di tutta la controversia fu Nestorio; non
però nel senso che la nuova dottrina sia sbocciata tutta dal suo ingegno e
dal suo studio, avendola egli certamente derivata da Teodoro, vescovo di Mopsuestia; ma egli, svolgendola poscia con maggiore
ampiezza, e rimessala a nuovo con una certa apparenza di originalità, si
diede a predicarla e a divulgarla con ogni mezzo con grande apparato di
parole e di sentenze, dotato com’era di facondia singolare. Nato a Germanicia, città della Siria, si recò da giovane ad Antiochia per istruirsi nelle scienze sacre e profane. In
questa città, allora celeberrima, professò dapprima la vita monastica; ma
poi, volubile com’era, abbandonato
questo genere di vita e ordinato sacerdote, si dedicò totalmente alla
predicazione, cercandovi, più che la
gloria di Dio, il plauso umano. La fama della sua eloquenza destò tanto
favore nel pubblico e talmente si diffuse che, chiamato a Costantinopoli,
allora priva del suo Pastore, fu elevato alla dignità episcopale, fra la più grande aspettazione comune. In questa così illustre sede,
anziché astenersi dalle massime
perverse della sua dottrina, continuò anzi a
insegnarle e a divulgarle con maggiore autorità e baldanza. Per bene intendere la questione, giova
qui accennare brevemente ai principali capi dell’eresia nestoriana.
Quell’uomo arrogante, giudicando che due ipostasi (*persone)
perfette, vale a dire la umana di Gesù e la divina
del Verbo, si fossero riunite in una comune persona, o « prosopo
» (com’egli si esprimeva), negò quell’ammirabile unione sostanziale delle due
nature, che chiamiamo ipostatica; pertanto insegnò che l’Unigenito Verbo di
Dio non s’era fatto uomo, ma si trovava presente nell’umana carne per la sua inabitazione, per il suo beneplacito e per la virtù della
sua operazione. Di qui, non doversi Gesù chiamare Dio, ma « Theophoros » ossia Deifero;
in modo non molto dissimile da quello per cui i
profeti e gli altri santi possono chiamarsi Deiferi,
cioè per la grazia divina loro concessa. Da queste perverse massime di Nestorio
seguiva doversi riconoscere in Cristo due persone, l’una divina e l’altra umana; e così ne scendeva necessariamente che la B. V.
Maria non era veramente Madre di Dio, ossia « Theotócos
», ma piuttosto Madre di Cristo uomo, ossia « Christotócos
», o al più Accoglitrice di Dio, ossia « Theodócos » [5]. Questi empi dogmi, predicati non più
nell’oscurità del segreto da un uomo privato, ma apertamente in pubblico
dallo stesso Vescovo di Costantinopoli, produssero negli animi, massime nella
Chiesa orientale, una gravissima perturbazione. E fra gli oppositori
dell’eresia nestoriana, che non mancarono nemmeno nella capitale dell’Impero di Oriente, tiene certamente il primo posto quell’uomo
santo e vindice della cattolica integrità che fu Cirillo, Patriarca di
Alessandria. Questi, non appena conosciuta l’empia dottrina del Vescovo di
Costantinopoli, zelantissimo com’era non soltanto dei figli
suoi, ma altresì dei fratelli erranti, difese validamente presso i suoi la
fede ortodossa, e si adoperò con animo fraterno di ricondurre Nestorio alla
norma della verità, indirizzandogli una lettera. Riuscito
vano questo caritatevole tentativo a motivo della pervicace ostinazione di
Nestorio, Cirillo, non meno buon conoscitore che fortissimo assertore
dell’autorità della Chiesa Romana, non volle spingere più oltre la
discussione né sentenziare di sua autorità in una causa tanto grave, senza prima domandare e udire il giudizio della Sede Apostolica.
Scrisse perciò « al Beatissimo e a Dio dilettissimo
Padre Celestino », una lettera piena di deferenza, dicendogli fra
l’altro: « L’antica consuetudine delle Chiese ci induce
a comunicare alla Tua Santità simili cause… » [6].
« Né vogliamo abbandonare pubblicamente la comunione di
lui (Nestorio), prima di farne cenno alla Tua pietà. Degnati pertanto
di significarci la Tua sentenza, onde chiaramente ci possa
constare se convenga che noi comunichiamo con uno che favorisce e predica una siffatta erronea dottrina. Quindi
l’integrità della Tua mente e il Tuo parere su questo argomento
deve venire esposto chiaramente per iscritto ai vescovi piissimi e a Dio
devotissimi della Macedonia e ai Pastori di tutto l’Oriente » [7]. Nestorio
stesso non ignorava la suprema autorità del Vescovo di Roma su tutta la
Chiesa; e di fatto ripetutamente scrisse a
Celestino, sforzandosi di provare la sua dottrina e di guadagnarsi e
accattivarsi l’animo del santo Pontefice. Ma indarno;
perché gli stessi scritti incomposti
dell’eresiarca contenevano errori non lievi; e il Capo della Sede Apostolica
non appena li scorse, mettendo subito mano al rimedio perché la peste
dell’eresia non divenisse, temporeggiando, più pericolosa, li esaminò
giuridicamente in un Sinodo, e solennemente li riprovò e ordinò che parimenti
da tutti fossero riprovati. E qui
desideriamo, Venerabili Fratelli, che riflettiate
attentamente quanto, in questa causa, il modo di procedere del Romano
Pontefice differisca da quello seguito dal Vescovo di Alessandria. Questi infatti, pur occupando una sede stimata la prima della
Chiesa Orientale, non volle, come abbiamo detto, dirimere da sé una
gravissima controversia concernente la fede cattolica, prima di aver ben
conosciuto il pensiero della Sede Apostolica. Celestino invece, riunito a Roma un Sinodo, esaminata ponderatamente
la causa, in forza della suprema e assoluta sua autorità su tutto il gregge
del Signore, pronunziò solennemente questa decisione sul Vescovo di
Costantinopoli e sulla dottrina di lui: « Sappi
dunque chiaramente », così scrisse a Nestorio, « che questa è la
nostra sentenza: se di Cristo, Dio nostro, non predichi ciò che affermano la
Chiesa Romana e Alessandrina e tutta la Chiesa cattolica, come anche
ottimamente sostenne la sacrosanta Chiesa di Costantinopoli fino a te, e se
entro dieci giorni da computarsi da quello in cui avrai avuto notizia di
questa intimazione, non ripudierai, con una confessione chiara e per
iscritto, quella perfida novità che tenta di separare ciò che la Sacra
Scrittura unisce, sei cacciato dalla comunione di tutta la Chiesa cattolica.
Il testo del nostro giudizio su di te abbiamo
inviato, per mezzo del ricordato figlio mio il diacono Possidonio,
con tutti i documenti, al santo mio consacerdote
Vescovo della predetta città di Alessandria, che di tutto questo affare con
maggior pienezza C’informò, perché, in nostra vece, faccia in modo che questa
nostra decisione venga conosciuta da te e da tutti i fratelli; perché tutti
debbono sapere quanto si fa, quando si tratta della causa di tutti »
[8]. L’esecuzione di questa sentenza fu poi
demandata dal Romano Pontefice al Patriarca di Alessandria
con queste gravi parole: « Pertanto, forte dell’autorità della nostra
Sede, tenendo le nostre veci, eseguirai, con forte vigore questa sentenza: o
entro dieci giorni, da computarsi dal giorno di questa intimazione, egli
condannerà con una professione scritta le sue perverse dottrine e confermerà
di ritenere intorno alla natività di Cristo, Dio nostro, la fede professata
dalla Chiesa Romana, da quella della tua santità e dall’universale
sentimento; oppure, se ciò non farà, subito la tua santità, provvedendo a
quella Chiesa, sappia ch’egli dev’essere in tutti i modi rimosso dal nostro
corpo » [9]. Alcuni
scrittori antichi e moderni, quasi per eludere la chiara autorità dei
documenti riferiti, vollero su tutta questa controversia proferire giudizio,
spesso con un’orgogliosa iattanza. Anche ammesso, così vanno
sconsideratamente dicendo, che il Pontefice Romano abbia
pronunciato una sentenza perentoria ed assoluta, provocata dal Vescovo
di Alessandria emulo di Nestorio, e quindi da lui ben volentieri fatta sua,
resta però il fatto che il Concilio, riunitosi più tardi ad Efeso, tornò a
giudicare da capo tutta la causa, già giudicata e assolutamente condannata
dalla Sede Apostolica, e con la suprema sua autorità stabili ciò che da tutti
doveva ritenersi in tale questione. Quindi credono di poter concludere che il Concilio Ecumenico gode di diritti assai
maggiori e più forti che non l’autorità del Vescovo di Roma. Ma chi
con lealtà di storico e con animo spoglio di pregiudizi riguardi
diligentemente ai fatti e ai documenti scritti, non può non riconoscere che
tale obiezione posa sul falso ed è solo una simulazione di verità. Anzitutto
conviene avvertire che quando l’imperatore Teodosio, anche in nome del suo
collega Valentiniano, indisse il Concilio
Ecumenico, la sentenza di Celestino non era ancora giunta a Costantinopoli, e
quindi non vi era per nulla conosciuta. In secondo
luogo avendo Celestino appreso della convocazione del Concilio di Efeso da parte degli Imperatori, non si mostrò affatto
contrario; anzi scrisse a Teodosio [10] e al Vescovo
di Alessandria [11] lodando il provvedimento e
annunziando la scelta del Patriarca Cirillo, dei Vescovi Arcadio e Proietto e
del prete Filippo, quali suoi legati, perché presiedessero al Concilio. Nel
fare ciò il Romano Pontefice non rilasciò tuttavia all’arbitrio del Concilio
la causa come non ancora giudicata, ma fermo restando, come si espresse, « quanto
da Noi già si è stabilito » [12], affidò
l’esecuzione della sentenza da lui pronunciata ai Padri del Concilio, in modo
che essi, se fosse stato possibile, dopo essersi insieme consultati e aver
pregato Iddio, si adoperassero per ricondurre all’unità della fede il Vescovo
di Costantinopoli. Infatti, avendo Cirillo domandato al Pontefice come
regolarsi in quell’affare, se cioè « il Sacro
Sinodo dovesse riceverlo (Nestorio) nel caso che condannasse quanto aveva
predicato; oppure valesse la sentenza già da tempo pronunziata, per essere
ormai spirato il tempo dell’indugio », Celestino gli rispose: « Sia
questo l’ufficio della tua santità insieme col venerando Concilio dei
fratelli, di reprimere cioè gli strepiti sorti nella Chiesa, e di far sapere
che, con l’aiuto divino, il negozio si è concluso con la desiderata
correzione. Né diciamo già di non essere presenti al
Concilio, non potendo non essere presenti a coloro con i quali, ovunque essi
si trovino, Noi siamo congiunti per l’unità della fede… Costì Noi ci
troviamo, perché pensiamo a ciò che costì si tratta per il bene di tutti;
trattiamo presenti in ispirito ciò che non possiamo
trattare presenti di corpo. Penso alla pace cattolica, penso alla salute di
chi perisce, purché questi voglia confessare la sua
malattia. E ciò diciamo perché non sembri che
veniamo meno a chi forse vuole correggersi… Provi egli che Noi non abbiamo i
piedi veloci ad effondere il sangue, conoscendo che anche per lui è offerto
il rimedio » [13]. Queste
parole di Celestino ne dimostrano l’animo paterno e attestano chiaramente ch’egli non bramava di meglio se non che rifulgesse alle
menti accecate il lume della fede, e che la Chiesa fosse rallegrata dal
ritorno degli erranti; tuttavia le prescrizioni da lui fatte ai legati in
partenza per Efeso, sono certamente tali da manifestare la cura sollecita con
cui il Pontefice ordinò che fossero mantenuti intatti i divini diritti della
Sede Romana. Si legge infatti, tra l’altro: « Comandiamo
che si debba custodire l’autorità della Sede Apostolica; poiché così parlano
le istruzioni che vi sono state date, che cioè dobbiate esser presenti al
Concilio e che se si venga alla discussione, voi dobbiate giudicare delle loro opinioni, non già
entrare nella lotta » [14]. Né
diversamente si comportarono i legati, col pieno consenso dei Padri del
Concilio. Infatti, ubbidendo con fermezza e fedeltà ai predetti ordini del
Pontefice, giunti ad Efeso, quando già era finita la prima tornata, chiesero che fossero loro consegnati tutti i decreti della
precedente riunione, perché potessero venire ratificati in nome della Sede
Apostolica: «Domandiamo che vogliate esporci
quanto fu trattato in questo santo Sinodo prima del nostro arrivo, affinché,
secondo la mente del beato nostro Papa e di questo santo Concilio, anche noi
lo confermiamo…» [15]. E il
prete Filippo pronunciò dinanzi a tutto il Concilio quella famosa sentenza
sul primato della Chiesa Romana, che viene riferita
nella Costituzione dogmatica « Pastor Aeternus
» del Concilio Vaticano [16]. Essa dice: «Nessuno
dubita, anzi tutti i secoli conoscono, che il santo e beatissimo Pietro,
principe e capo degli Apostoli, colonna della fede e fondamento della Chiesa
cattolica, ricevette le chiavi del regno dal Signor
Nostro Gesù Cristo, Salvatore e Redentore del genere umano, e che a lui fu
data la potestà di sciogliere e legare i peccati; ed egli fino a questo tempo
e sempre vive nei suoi successori ed esercita il giudizio » [17]. Che
più? Forse che i Padri del Concilio Ecumenico si opposero a questo procedere
di Celestino e dei suoi legati? Assolutamente no. Anzi rimangono documenti scritti che ne manifestano
chiarissimamente la riverenza e l’ossequio. Quando
infatti i legati pontifici, nella seconda tornata del Concilio,
leggendo la lettera di Celestino, dissero fra l’altro: «Abbiamo inviato,
nella nostra sollecitudine, i santi fratelli e consacerdoti,
Arcadio e Proietto, Vescovi, e il nostro prete Filippo, uomini specchiatissimi e concordi con Noi, perché intervengano
alle vostre discussioni ed eseguano ciò che già da
noi è stato stabilito; e ad essi non dubitiamo che la vostra santità debba
dare l’assenso…» [18], i Padri, lungi dal
ricusare questa sentenza come di giudice supremo, l’applaudirono anzi
unanimemente e salutarono il Romano Pontefice con queste onorifiche
acclamazioni: «Questo è il giusto giudizio! A Celestino, nuovo Paolo, a
Cirillo nuovo Paolo, a Celestino custode della fede, a Celestino concorde col
Sinodo, a Celestino tutto il Concilio rende grazie: un solo Celestino, un
solo Cirillo, una sola la fede del Sinodo, una sola la fede del mondo » [19]. Come
poi si venne alla condanna e alla riprovazione di Nestorio, i medesimi Padri
del Concilio non credettero di poter liberamente giudicare da capo la causa,
ma apertamente professarono di essere stati prevenuti e « costretti » dal responso del Romano Pontefice: « Conoscendo… che egli
(Nestorio) sente e predica empiamente, costretti dai canoni e dalla lettera
del Santissimo Padre nostro e consacerdote
Celestino, Vescovo della Chiesa Romana, versando lacrime, veniamo
necessariamente a questa lugubre sentenza contro di lui. Pertanto Gesù
Cristo, nostro Signore, assalito dalle blasfeme voci di lui, per mezzo di
questo santo Sinodo ha definito il medesimo Nestorio
privato della dignità episcopale e separato da ogni consorzio e riunione
sacerdotale » [20]. Questa
fu altresì la professione fatta da Fermo, Vescovo di Cesarea, nella seconda
sessione del Concilio, con le seguenti chiare parole: « L’Apostolica e
Santa Sede del santissimo Vescovo Celestino, con la lettera indirizzata ai
religiosissimi Vescovi, prescrisse anche in precedenza la sentenza e la regola
intorno a questo caso; conformemente ad esse …
giacché Nestorio, da noi citato, non è comparso, mandammo ad effetto quella
condanna, proferendo contro di lui il giudizio canonico ed apostolico » [21]. Orbene,
i documenti finora da noi ricordati provano in modo così ovvio e significativo la fede già allora comunemente in vigore in
tutta la Chiesa intorno all’autorità indipendente ed infallibile del Romano
Pontefice su tutto il gregge di Cristo, che Ci richiamano alla mente quella
nitida e splendida espressione di Agostino sul giudizio pochi anni prima
pronunziato dal papa Zosimo contro i Pelagiani
nella sua Epistola Tractoria: « In queste parole
la fede della Sede Apostolica è tanto antica e fondata, tanto certa e chiara
è la fede cattolica, che non è lecito a un cristiano dubitare di essa » [22]. È così avesse potuto intervenire al Concilio di Efeso il santo
Vescovo di Ippona! come vi
avrebbe illustrato i dogmi della verità cattolica con quell’ammirabile sua
acutezza d’ingegno, vedendo il pericolo delle discussioni, e come li avrebbe
difesi con la sua forza d’animo! Ma quando i legati degli Imperatori giunsero
ad Ippona per consegnargli la lettera di invito, non poterono far altro che piangere estinto
quel chiarissimo luminare della sapienza cristiana e la sua sede devastata
dai Vandali. Non
ignoriamo, Venerabili Fratelli, che alcuni di coloro che, specialmente ai
nostri giorni, si dedicano alle ricerche storiche, si affannano non solo ad
assolvere Nestorio di ogni taccia di eresia, ma ad
accusare il santo Vescovo di Alessandria Cirillo quasi che questi, mosso da
iniqua rivalità, calunniasse Nestorio e si adoperasse con tutte le sue forze
a provocarne la condanna per dottrine non mai da lui insegnate. E i medesimi
difensori del Vescovo di Costantinopoli non si peritano di lanciare la
medesima gravissima accusa al beato Nostro antecessore Celestino, della cui
imperizia Cirillo avrebbe abusato, e allo stesso
sacrosanto Concilio di Efeso. Ma
contro un siffatto attentato, non meno vano che temerario, proclama unanime
la sua riprovazione la Chiesa tutta, la quale in
ogni tempo riconobbe come meritamente pronunziata la condanna di Nestorio,
ritenne ortodossa la dottrina di Cirillo, annoverò sempre e venerò il
Concilio Efesino tra i Concili Ecumenici celebrati sotto la guida dello
Spirito Santo. Ed infatti, pur tralasciando molte altre eloquentissime
testimonianze, valga quella di moltissimi seguaci dello stesso Nestorio. Essi
videro svolgersi gli eventi sotto i propri occhi, né erano legati a Cirillo
da vincolo alcuno; eppure, benché spinti alla parte contraria dall’amicizia
con Nestorio, dalla grande attrattiva dei suoi
scritti e dall’acceso ardore delle dispute, nondimeno, dopo il Sinodo
Efesino, come colpiti dalla luce della verità, a poco a poco abbandonarono
l’eretico Vescovo di Costantinopoli, che appunto secondo la legge
ecclesiastica era da evitare. Ed alcuni di essi
certamente sopravvivevano ancora, allorché il Nostro predecessore di f. m.
Leone Magno, così scriveva al Vescovo di Marsala Pascasino,
suo legato al Concilio di Calcedonia: «Tu ben sai che tutta la Chiesa
Costantinopolitana, con tutti i suoi monasteri e molti Vescovi, prestò il suo
consenso e sottoscrisse alla condanna di Nestorio e di Eutiche, e dei loro errori » [23].
Nella
lettera dogmatica, poi, all’imperatore Leone, egli accusa apertissimamente
Nestorio come eretico e maestro di eresia, senza che
alcuno gli contraddica. Egli scrive: « Si condanni dunque Nestorio, che
opinò la Beata Vergine Maria essere madre soltanto dell’uomo e non di Dio,
stimando altra essere la persona umana ed altra la divina, e non ritenendo un
solo Cristo nel Verbo di Dio e nella carne, ma separando e proclamando altro
essere il figlio di Dio, altro il figlio dell’uomo » [24].
Né alcuno può ignorare che questo stesso fu solennemente
sancito dal Concilio di Calcedonia, il quale riprovò nuovamente
Nestorio e lodò la dottrina di Cirillo. Così pure il santissimo Nostro
predecessore Gregorio Magno, non appena fu innalzato alla cattedra del beato
Pietro, dopo avere ricordato — nella sua Lettera sinodica alle Chiese
orientali — i quattro Concili Ecumenici, cioè il Niceno, il Costantinopolitano,
l’Efesino e il Calcedonese, si esprime intorno ad
essi con questa, nobilissima ed importantissima
sentenza: «… Su di essi si innalza, come su pietra quadrata, l’edificio
della santa fede; su di essi poggia ogni vita ed azione; chi non si appoggia
ad essi, anche se sembri essere pietra, giace tuttavia fuori dell’edificio
» [25]. Tutti
dunque ritengano come certo e manifesto che veramente Nestorio propalò errori
ereticali, che il Patriarca Alessandrino fu invitto difensore della fede
cattolica, e che il Pontefice Celestino, col Concilio di Efeso,
difese l’avita dottrina e la suprema autorità della Sede Apostolica. II Ma è
tempo ormai, Venerabili Fratelli, che passiamo a considerare più
profondamente quei punti di dottrina, i quali, mediante la condanna stessa
di Nestorio, furono apertamente professati e autorevolmente sanciti dal
Concilio Ecumenico di Efeso. Orbene, oltre la
condanna dell’eresia Pelagiana e dei suoi fautori,
tra i quali senza dubbio era Nestorio, l’argomento principale che vi fu
trattato, e che fu solennemente e unanimemente confermato da quei Padri,
riguardava la sentenza del tutto empia e contraria
alle Sacre Scritture, propugnata da questo eresiarca; ond’è
che fu proclamato come assolutamente certo ciò che egli negava, e cioè in
Cristo essere una sola persona, la persona divina. Nestorio
infatti, come dicemmo, ostinatamente sosteneva che il Divin Verbo si
unisce all’umana natura in Cristo, non già sostanzialmente e ipostaticamente,
bensì mediante un vincolo meramente accidentale e morale; e i Padri di Efeso,
condannando appunto il Vescovo di Costantinopoli, proclamarono apertamente la
vera dottrina dell’Incarnazione, che deve essere da tutti fermamente
ritenuta. Ed invero Cirillo, nelle sue epistole e nei suoi capitoli, già in
precedenza indirizzati a Nestorio e poi inseriti negli Atti di quel Concilio,
accordandosi mirabilmente con la Chiesa di Roma, con chiare e ripetute parole
ne difende la dottrina: « Pertanto in nessun modo è lecito scindere l’unico Signor nostro
Gesù Cristo in due figli… La Scrittura infatti non dice che il Verbo ha
associato a sé la persona umana, ma che si è fatto carne. Il dire che il
Verbo si è fatto carne, significa che egli, come noi, si è unito con la carne
e col sangue; egli dunque fece suo il nostro corpo e nacque uomo dalla donna,
senza nondimeno abbandonare la divinità e la filiazione dal Padre: restò
quindi, nella stessa assunzione della carne, quello che era » [26]. Infatti,
come sappiamo dalle Sacre Scritture e dalla tradizione divina, il Verbo di
Dio Padre non si congiunse con un uomo, già in sé sussistente, ma uno stesso
e medesimo Cristo è il Verbo di Dio esistente ab
aeterno nel seno del Padre e l’uomo fatto nel tempo. Poiché la mirabile
unione della divinità e dell’umanità in Cristo Gesù, Redentore del genere
umano, la quale a ragione vien detta ipostatica, è appunto quella che è
inconfutabilmente espressa nelle Sacre Lettere, allorché lo stesso unico
Cristo, non solo è appellato Dio ed uomo, ma viene anche descritto in atto di
operare e come Dio e come uomo, ed infine, di morire in
quanto uomo e di risorgere glorioso dalla morte in quanto Dio. In
altri termini, quello stesso che è concepito per virtù dello Spirito Santo
nel seno della Vergine, nasce, giace nel presepe, si dice figlio dell’uomo,
soffre, e muore confitto in croce, è quello stesso appunto che dall’Eterno
Padre, in modo miracoloso e solenne è proclamato « mio Figlio diletto
» [27], dà con potere divino il perdono dei peccati [28], restituisce per virtù propria la sanità agli
infermi [29] e richiama i morti alla vita [30]. Ora tutto ciò, mentre dimostra ad evidenza essere
in Cristo due nature, dalle quali procedono operazioni umane e divine, non
meno evidentemente attesta uno essere Cristo, Dio e
Uomo nello stesso tempo, per quella unità della persona divina, per la quale è detto « Theànthropos
». Inoltre,
non vi è chi non veda come questa dottrina,
costantemente insegnata dalla Chiesa, sia comprovata e confermata dal dogma
della Redenzione umana. Infatti, come avrebbe potuto
Cristo essere chiamato « primogenito fra molti fratelli » [31], essere ferito a causa della nostra iniquità [32], redimerci dalla schiavitù del peccato, se non fosse
stato dotato di natura umana, come noi? E parimenti
come avrebbe Egli potuto del tutto placare la giustizia del Padre celeste,
offesa dal genere umano, se non fosse stato insignito, per la sua persona
divina, di una dignità immensa e infinita? Né è
lecito negare questo punto della verità cattolica per la
ragione che, se si dicesse che il Redentore nostro è privo della
persona umana, per ciò stesso potrebbe sembrare che alla sua natura umana
mancasse qualche perfezione, e quindi diventerebbe, come uomo, inferiore a
noi. Poiché, come sottilmente e sagacemente osserva l’Aquinate, « la
personalità in tanto appartiene alla dignità e alla perfezione di qualche
cosa, in quanto appartiene alla dignità e alla perfezione
di quella cosa l’esistere per se stessa, il che si intende col nome di
persona. Però è più degno, per qualcuno, esistere in un
altro di sé più elevato, che esistere per sé; quindi la natura umana è in
maggiore dignità in Cristo, che non lo sia in noi, perché in noi, esistendo
quasi per sé, ha la propria personalità; in Cristo, invece, esiste nella persona del Verbo. Così pure
l’essere completivo della specie appartiene alla
dignità della forma; tuttavia la parte sensitiva è più nobile nell’uomo per
la congiunzione ad una più nobile forma completiva,
che non lo sia nel bruto animale, nel quale essa stessa è forma completiva » [33]. Inoltre
è bene qui notare che, come Ario, quell’astutissimo sovvertitore dell’unità
cattolica, impugnò la natura divina del Verbo, e la sua consostanzialità
con l’Eterno Padre, così Nestorio, procedendo per una via del tutta diversa,
rigettando cioè l’unione ipostatica del Redentore,
negò a Cristo, sebbene non al Verbo, la piena ed integra divinità. Infatti,
se in Cristo la natura divina fosse stata unita con quella umana
solamente con vincolo morale (come egli stoltamente vaneggiava) — ciò che,
come abbiamo detto, hanno in certo qual modo conseguito anche i profeti e gli
altri eroi della santità cristiana, per la propria intima unione con Dio — il
Salvatore del genere umano poco o nulla differirebbe da coloro che egli ha
redenti con la sua grazia e col suo sangue. Rinnegata dunque la dottrina dell’unione ipostatica, sulla quale si
fondano ed hanno solidità i dogmi dell’Incarnazione e della redenzione umana,
cade e rovina ogni fondamento della religione cattolica. Però
non Ci meravigliamo se, alla prima minaccia del pericolo dell’eresia
Nestoriana, tutto l’orbe cattolico ha tremato; non
Ci meravigliamo se il Concilio Efesino vivamente si è opposto al Vescovo di
Costantinopoli che combatteva con tanta temerità ed astuzia la fede avita, ed
eseguendo la sentenza del Romano Pontefice lo ha colpito col tremendo
anatema. Noi pertanto, facendo eco, in armonia di animo, a tutte le età dell’era cristiana, veneriamo il
Redentore del genere umano non come « Elia… o uno dei profeti » nei quali
abita la divinità per mezzo della grazia, ma ad una voce col Principe degli
Apostoli, che ha conosciuto tale mistero per rivelazione divina, confessiamo:
«Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente » [34]. Posta al sicuro questa verità dogmatica, se ne può facilmente
dedurre che l’universale famiglia degli uomini e delle cose create è stata
elevata dal mistero dell’Incarnazione a tale dignità, da non potersene
certamente immaginare una maggiore, certo più sublime di quella alla quale fu
innalzata con l’opera della creazione. Poiché in tal maniera nella
discendenza di Adamo vi è uno, cioè Cristo, il quale
perviene proprio alla sempiterna e infinita divinità, e con la stessa è
congiunto in modo arcano e strettissimo; Cristo, diciamo, fratello nostro,
dotato della natura umana, ma anche Dio con noi, ossia Emmanuele, che con la
sua grazia e i suoi meriti, riconduce tutti noi al divino Autore, e ci
richiama a quella beatitudine, dalla quale eravamo miseramente decaduti a
causa del peccato originale. Nutriamo dunque per lui sensi di gratitudine,
seguiamo i suoi precetti, imitiamone gli esempi. Così saremo consorti della
divinità di colui « che si è degnato farsi partecipe della nostra umanità
» [35]. Se
però, come abbiamo detto, in ogni tempo, nel corso dei secoli la vera Chiesa
di Gesù Cristo ha con somma diligenza difeso pura e incorrotta tale dottrina
dell’unità di persona e della divinità del suo Fondatore, non così,
purtroppo, avviene presso coloro che miseramente
vagano fuori dell’unico ovile di Cristo. Infatti, ogni volta che qualcuno con pertinacia si sottrae al magistero
infallibile della Chiesa, abbiamo da lamentare in lui anche una graduale
perdita della sicura e vera dottrina intorno a Gesù Cristo. In realtà, se
alle tante e così diverse sette religiose, a quelle in modo speciale sorte
dal secolo XVI e XVII in poi, le quali si gloriano ancora del nome cristiano
e al principio della loro separazione confessavano
fermamente Cristo Dio e uomo, domandassimo che cosa ora ne pensano, ne
avremmo risposte del tutto dissimili e fra loro contraddittorie; perché,
sebbene pochi di essi abbiano conservato una fede piena e retta riguardo alla
persona del nostro Redentore, quanto agli altri però, se in qualche maniera
affermano qualcosa di simile, questo sembra piuttosto un residuo di quel
prezioso aroma di antica fede, di cui ormai hanno perduto la sostanza. Infatti
essi presentano Gesù come un uomo dotato di divini carismi, congiunto in un
certo modo misterioso, più degli altri, con la divinità, e a Dio vicinissimo;
ma sono molto lontani dalla intera e genuina professione della fede
cattolica. Altri infine, non riconoscendo nulla di divino in Cristo, lo
dichiarano semplice uomo, adorno sì di esimie doti
di corpo e di animo, ma soggetto anche ad errori e alla fragilità umana. Da
ciò appare manifesto che tutti costoro, allo stesso modo di Nestorio, vogliono
con ardire temerario « separare Cristo » e pertanto, secondo la
testimonianza dell’Apostolo Giovanni, « non sono da Dio » [36]. Noi
dunque, dal supremo fastigio di questa Sede Apostolica, esortiamo con cuore
paterno tutti coloro che si gloriano di essere
seguaci di Cristo, e che in Lui ripongono la speranza e la salute sia dei
singoli sia dell’umano consorzio, ad aderire ogni giorno più fermamente e
strettamente alla Chiesa Romana, nella quale si crede Cristo con fede unica,
integra e perfetta, lo si onora con sincero culto di adorazione, lo si ama
con perenne e vivida fiamma di carità. Si ricordino costoro, in modo speciale
coloro che governano il gregge da Noi separato, che quella fede dai loro antenati solennemente professata in Efeso, è
conservata immutata, e viene strenuamente difesa,
come nell’età passata così al presente, da questa suprema Cattedra di
verità; si ricordino che una tale purezza e unità di fede è fondata ed ha
fermezza nella sola pietra posta da Cristo, e parimenti che solo per mezzo della
suprema autorità del Beato Pietro e dei suoi Successori si può conservare
incorrotta. E
quantunque di questa unità della religione cattolica
abbiamo trattato più diffusamente pochi anni addietro nell’Enciclica Mortalium animos,
gioverà tuttavia richiamarla qui brevemente in memoria, poiché l’unione
ipostatica di Cristo, confermata in modo solenne nel Concilio Efesino,
propone e rappresenta il tipo di quella unità di cui il nostro Redentore
volle ornato il suo corpo mistico, cioè la Chiesa, « un solo corpo » [37], « ben compaginato e
connesso » [38]. E
veramente, se la personale unità di Cristo è l’arcano esemplare al quale Egli
stesso volle conformare l’unica compagine della società cristiana, ogni uomo di senno comprende che questa
non può affatto sorgere da una certa vana unione di molti discordanti fra
loro, ma unicamente da una gerarchia, da un unico e sommo magistero, da
un’unica regola del credere, da un’unica fede dei cristiani [39]. Questa
unità della Chiesa, che consiste nella comunione con la Sede Apostolica, fu
nel Concilio di Efeso splendidamente affermata da
Filippo, legato del Vescovo Romano, il quale, parlando ai Padri Conciliari
che ad una voce plaudivano alla lettera inviata da Celestino, proferì queste
memorande parole: « Rendiamo grazie al santo e venerabile Sinodo, perché
letta a voi la lettera del santo e beato Papa nostro, voi, membra sante, vi
siete congiunti al capo santo con le vostre sante voci e con le vostre sante
acclamazioni. Infatti la vostra beatitudine non
ignora che il beato Apostolo Pietro è capo di tutta la fede ed anche degli
Apostoli » [40]. Più che
in passato, ora maggiormente, Venerabili Fratelli, è necessario che tutti i
buoni siano stretti in Gesù Cristo e nella sua mistica sposa, la Chiesa, da un’unica, medesima e sincera professione
di fede, poiché dappertutto tanti uomini cercano di scuotere il soave giogo
di Cristo, respingono la luce della sua dottrina, calpestano le fonti della
grazia, e infine ripudiano la divina autorità di Colui, che è diventato, secondo il detto evangelico, « il segno di
contraddizione » [41]. Siccome
da tale lacrimevole defezione da Cristo provengono innumerevoli mali che
vanno ogni giorno crescendo, tutti cerchino l’opportuno rimedio da Lui, che «
è stato dato agli uomini sulla terra e nel quale solamente possiamo avere
salvezza » [42]. Così soltanto con l’aiuto del Sacro
Cuore di Gesù, potranno spuntare tempi più felici per gli animi dei mortali,
tanto per i singoli uomini, quanto per la società domestica e per la stessa
società civile, al presente così profondamente sconvolta. III Dal
punto della dottrina cattolica fin qui toccato, necessariamente deriva quel
dogma della divina maternità, che predichiamo, della B. Vergine Maria: «non
già come ammonisce Cirillo, che la natura del Verbo o la sua divinità abbia
tratto il principio della sua origine dalla Vergine Santissima, ma nel senso
che da lei trasse quel sacro corpo informato dall’anima razionale, dal quale
il Verbo di Dio, unito secondo la ipostasi, si dice
sia nato secondo la carne » [43]. Invero se il figlio della B. Vergine
Maria è Dio, per certo colei che lo generò deve chiamarsi con ogni diritto
Madre di Dio; se una è la persona di Gesù Cristo, e questa divina, senza alcun dubbio Maria deve da tutti essere chiamata non
solamente Genitrice di Cristo uomo, ma Deipara, « Theotòcos ». Colei dunque che da
Elisabetta sua cugina è salutata «Madre del mio Signore » [44], della quale Ignazio Martire dice che ha partorito
Iddio [45],
e dalla quale Tertulliano dichiara che
è nato Iddio [46], quella stessa noi
veneriamo come alma Genitrice di Dio, cui l’eterno Iddio conferì la pienezza
della grazia e che elevò a tanta dignità. Nessuno poi potrebbe rigettare questa
verità, tramandataci fin dall’inizio della Chiesa, per il
fatto che la B. Vergine abbia fornito sì il corpo a Gesù Cristo, senza
però generare il Verbo del Padre celeste; infatti, come a ragione e
chiaramente già fin dal suo tempo risponde Cirillo [47], a quel modo che tutte le altre donne nel cui seno si genera il nostro
terreno composto ma non l’anima, si dicono e sono veramente madri, così Ella ha similmente conseguito la divina maternità dalla
sola persona del Figlio suo. Giustamente
quindi il Concilio Efesino ancora una volta riprovò solennemente l’empia
sentenza di Nestorio, che il Romano Pontefice, mosso dallo Spirito divino,
aveva condannato un anno prima. E il
popolo di Efeso era compreso da tanta devozione e
ardeva di tanto amore per la Vergine Madre di Dio, che appena apprese la
sentenza pronunziata dai Padri del Concilio, li acclamò con lieta effusione
di animo e, provvedutosi di fiaccole accese, a folla compatta li accompagnò
fino alla loro dimora. E certo, la
stessa gran Madre di Dio, sorridendo soavemente dal cielo ad un così
meraviglioso spettacolo, ricambiò con cuore materno e col suo benignissimo aiuto i suoi figli di Efeso
e tutti i fedeli del mondo cattolico, perturbati dalle insidie dell’eresia
nestoriana. Da
questo dogma della divina maternità, come dal getto d’un’arcana
sorgente, proviene a Maria una grazia singolare: la sua dignità, che è la più grande dopo Dio. Anzi, come scrive
egregiamente l’Aquinate: « La Beata Vergine, per il
fatto che è Madre di Dio, ha una dignità in certo qual modo infinita,
per l’infinito bene che è Dio » [48]. Il che più
diffusamente espone Cornelio a Lapide con queste parole: « La Beata
Vergine è Madre di Dio; Ella dunque è di gran lunga
più eccelsa di tutti gli Angeli, anche dei Serafini e dei Cherubini. È Madre
di Dio; Ella perciò è la più pura e la più santa,
così che dopo Dio non si può immaginare una purezza maggiore. È Madre di Dio;
perciò qualsiasi privilegio concesso a qualunque Santo, nell’ordine della
grazia santificante, Ella lo ha al di sopra di tutti
» [49]. E allora perché i Novatori e non pochi
acattolici riprovano così acerbamente la nostra devozione alla Vergine Madre
di Dio, quasi riducessimo quel culto che solo a Dio è
dovuto? Ignorano forse costoro, o non attentamente riflettono come
nulla possa riuscire più accetto a Gesù Cristo, che
certamente arde di un amore grande per la Madre sua, quanto il venerarla noi
secondo il merito, premurosamente riamarla e studiarci, con l’imitazione dei
suoi esempi santissimi, di guadagnarcene il valido patrocinio? Non
vogliamo però passare sotto silenzio un fatto che Ci riesce di non lieve
conforto, come cioè ai nostri tempi, anche alcuni
tra i Novatori siano tratti a conoscere meglio la dignità della Vergine Madre
di Dio, e mossi a venerarla ed onorarla con amore. E
questo certamente, quando nasca da una profonda sincerità della loro
coscienza e non già da un larvato
artificio di conciliarsi gli animi dei cattolici, come sappiamo che
avviene in qualche luogo, Ci fa del tutto sperare che, con l’aiuto della
preghiera, la cooperazione di tutti e con l’intercessione della B. Vergine
che ama di amore materno i figli erranti, questi
siano finalmente un giorno ricondotti in seno all’unico gregge di Gesù Cristo
e, per conseguenza, a Noi che, sebbene indegnamente, ne sosteniamo in terra
le veci e l’autorità. Ma
nella missione della maternità di Maria, ancora un’altra cosa, Venerabili
Fratelli, crediamo doveroso ricordare: una cosa che torna certamente più
dolce e più soave. Avendo Ella dato alla luce il
Redentore del genere umano, divenne in certo modo madre benignissima,
anche di noi tutti, che Cristo Signore volle avere per fratelli [50]. Scrive il Nostro Predecessore Leone XIII di f.m.: «Tale ce la diede Iddio: nell’atto stesso in cui
la elesse a Madre del suo Unigenito, le ispirò
sentimenti del tutto materni, che nient’altro effondessero se non
misericordia ed amore; tale da parte sua ce l’additò Gesù Cristo, quando
volle spontaneamente sottomettersi a Maria e prestarle obbedienza come un
figlio alla madre; tale Egli dalla croce la dichiarò allorché, nel discepolo
Giovanni, le affidò la custodia e il
patrocinio su tutto il genere umano; tale infine si dimostrò Ella stessa,
quando, raccolta con animo grande quella eredità d’un immenso travaglio
lasciatale dal Figlio moribondo, si diede subito a compiere ogni ufficio di
madre » [51]. Per
questo avviene che a Lei veniamo attratti come da un impulso irresistibile, e
a Lei confidiamo con filiale abbandono ogni cosa nostra — le gioie cioè, se siamo lieti; le pene se siamo addolorati; le
speranze se finalmente ci sforziamo di risollevarci a cose migliori —; per questo avviene che se alla Chiesa si
preparano giorni più difficili, se la fede viene scossa perché la carità si è
raffreddata, se volgono in peggio i privati e pubblici costumi, se qualche
sciagura minaccia la famiglia cattolica e il civile consorzio, a Lei ci
rifugiamo con suppliche, per chiedere con insistenza l’aiuto celeste; per
questo, infine, quando nel supremo pericolo della morte, non troviamo più da
nessuna parte speranza ed aiuto, a Lei innalziamo gli occhi lacrimosi e le
mani tremanti, chiedendo fervidamente, per mezzo di Lei al Figlio suo, il
perdono e l’eterna felicità nei cieli. A Lei,
dunque, ricorrano tutti con più acceso amore nelle presenti necessità dalle
quali siamo travagliati; a Lei domandino con
suppliche pressanti « di impetrare che le fuorviate generazioni tornino
all’osservanza delle leggi, nelle quali è riposto il fondamento d’ogni
pubblico benessere, e donde promanano i benefìci
della pace e della vera prosperità. A Lei chiedano molto intensamente ciò che
tutti i buoni devono avere in cima ai loro pensieri: che la Madre Chiesa
ottenga il tranquillo godimento della sua libertà, la quale non indirizza ad
altro che alla tutela dei supremi interessi dell’uomo, e dalla quale, come
gli individui, così la società, anziché danno, trasse in ogni tempo i più
grandi e inestimabili benefìci » [52]. Ma
sopra ogni altra cosa, un particolare e certamente importantissimo beneficio desideriamo che da tutti venga implorato, mediante la
intercessione della celeste Regina. Ella cioè, che è
tanto amata e tanto devotamente onorata dagli Orientali dissidenti, non
permetta che questi miseramente fuorviino e che sempre più si allontanino
dall’unità della Chiesa e quindi dal Figlio suo, del quale Noi facciamo le
veci sulla terra. Tornino a quel Padre comune, la cui sentenza accolsero tutti i Padri del Concilio Efesino e salutarono
con plauso unanime quale « custode della Fede »; facciano ritorno a
Noi, che per tutti loro portiamo un cuore assolutamente paterno, e volentieri
facciamo Nostre quelle tenerissime parole con le quali Cirillo si sforzò di
esortare Nestorio, affinché « si conservasse la pace delle Chiese e
rimanesse indissolubile tra i sacerdoti di Dio il vincolo della concordia e
dell’amore » [53]. Voglia
il Cielo che spunti quanto prima quel lietissimo giorno in cui la Vergine
Madre di Dio, fatta ritrarre in mosaico dal Nostro antecessore Sisto III
nella Basilica Liberiana (opera che Noi stessi abbiamo voluto restituire al
primitivo splendore), possa vedere il ritorno dei figli da Noi separati, per
venerarla insieme con Noi, con un solo animo e una
fede sola. Cosa che certamente Ci riuscirà oltre ogni dire
gioconda. Riteniamo inoltre di buon augurio l’essere toccato a Noi di
celebrare questo quindicesimo centenario; a Noi, vogliamo dire, che abbiamo
difeso la dignità e la santità del casto connubio contro i cavillosi assalti
d’ogni genere [54]; a Noi che abbiamo solennemente
rivendicato alla Chiesa i sacrosanti diritti dell’educazione della gioventù,
affermando ed esponendo con quali metodi dovesse impartirsi, a quali princìpi conformarsi [55]. Infatti
questi due Nostri insegnamenti trovano sia nelle mansioni della divina
maternità, sia nella famiglia di Nazaret un esimio modello da proporsi
all’imitazione di tutti. Effettivamente, per servirci delle
parole del Nostro Predecessore Leone XIII di f. m., « i padri di famiglia
hanno in Giuseppe una guida eccellentissima di paterna e vigile
provvidenza; nella Santissima Vergine Madre di Dio, le madri hanno un insigne
modello di amore, di verecondia, di spontanea sottomissione e di fedeltà
perfetta; in Gesù poi, che era a quelli sottomesso, i figli trovano un
modello di ubbidienza tale da essere ammirato, venerato ed imitato » [56]. Ma è
particolarmente giovevole soprattutto che quelle madri dei tempi moderni, le
quali, infastidite della prole e del vincolo
coniugale, hanno avvilito e violato i doveri che si erano imposti, sollevino
lo sguardo a Maria, e seriamente considerino a quanto grande dignità il
compito di madre sia stato da Lei innalzato. Così si può allora sperare che,
con la grazia della celeste Regina, siano indotte ad arrossire dell’ignominia
inflitta al grande sacramento del matrimonio, e che
siano salutarmente animate a conseguire con ogni
sforzo i pregi ammirabili delle virtù di Lei. E
qualora tutto ciò avvenga secondo i Nostri desideri, se cioè
la società domestica — principio fondamentale di tutto l’umano consorzio —
verrà ricondotta a così degnissima norma di probità, senza dubbio potremo
affrontare e porre finalmente un riparo a quello spaventoso cumulo di mali da
cui siamo travagliati. In tal modo avverrà « che la pace di Dio, la quale
supera ogni intendimento, custodirà i cuori e le intelligenze di tutti »
[57], e che l’auspicatissimo
regno di Cristo venga dovunque e felicemente
ristabilito, mediante la mutua unione delle forze e delle volontà. Né vogliamo por fine a questa nostra
Enciclica senza manifestarvi, Venerabili Fratelli, una cosa che certamente
riuscirà a tutti gradita. Desideriamo cioè che non manchi un ricordo liturgico di questa
secolare commemorazione: un ricordo che giovi a rinfervorare
nel Clero e nel popolo la più grande devozione verso la Madre di Dio.
Perciò abbiamo ordinato alla Sacra Congregazione dei Riti che vengano pubblicati l’Ufficio e la Messa della Divina
Maternità, da celebrarsi in tutta la Chiesa universale. Intanto
a ciascuno di voi, Venerabili Fratelli, al clero e al popolo vostro, come
auspicio dei celesti favori e quale pegno del Nostro cuore paterno,
impartiamo di cuore l’Apostolica Benedizione. Dato
a Roma, presso San Pietro, il 25 dicembre, nella festa della Natività di N.
S. Gesù Cristo, dell’anno 1931, decimo del Nostro Pontificato. PIUS PP. XI *
Specificazione fuori testo; vedere anche: CATECHISMO
DELLA CHIESA CATTOLICA Vero Dio e vero
uomo pag. 130-131 L'evento unico e del
tutto singolare dell'Incarnazione del Figlio di Dio non
significa che Gesù Cristo sia in parte Dio e in
parte uomo, né che sia il risultato di una confusa mescolanza di divino e di
umano. Egli si è fatto veramente uomo rimanendo veramente
Dio. Gesù Cristo è vero Dio e vero uomo. La Chiesa nel corso dei primi
secoli ha dovuto difendere e chiarire questa verità di fede contro eresie che
la falsificavano. L'eresia
nestoriana vedeva in Cristo una persona umana congiunta alla Persona divina
del Figlio di Dio. L'umanità
di Cristo non ha altro soggetto che la Persona divina del Figlio di Dio, che
l'ha assunta e fatta sua al momento del suo concepimento. Un
solo e medesimo Cristo, Signore, Figlio unigenito, che noi dobbiamo
riconoscere in due nature, senza confusione, senza mutamento, senza
divisione, senza separazione. [...] vi è
" una sola ipostasi (o persona) [...], cioè il Signore nostro
Gesù Cristo, Uno della Trinità ".
Tutto, quindi, nell'umanità di Cristo deve essere attribuito alla sua
Persona divina come al suo soggetto proprio, non soltanto i miracoli ma
anche le sofferenze e così pure la morte: " Il
Signore nostro Gesù Cristo, crocifisso nella sua
carne, è vero Dio, Signore della gloria e Uno della Santa Trinità ". [1] Matth., XXVIII, 20. [2] Ioann., XV, 6. [3] Epist. ad Emos Card. B. Pompilj et A. Sincero, d. XXV Dec. MDCCCCXXX. [4] Ephes. IV, 13-16. [5] Mansi, Conciliorum Amplissima Collectio, IV,
c. 1007; Schwartz, Acta Conciliorum Oecumenicorum,
I, 5, p. 408. [6] Mansi,
l.c.,
IV, 1011. [7] Mansi,
l.c.,
IV, 1015. [8] Mansi,
l.c.,
IV, 1034 sq. [9] Migne, P. L., 50,
463; Mansi, l.c., IV, 1019 sq. [10] Mansi,
l.c.,
IV, 1291. [11] Mansi,
l.c.,
IV, 1292. [12] Mansi,
l.c.,
IV, 1287. [13] Mansi.
l.c.,
IV, 1292. [14] Mansi,
l.c.,
IV, 556. [15] Mansi,
l.c.,
IV, 1290. [16] Conc. Vatic.,
sess. IV, cap. 2. [17] Mansi,
l.c.,
IV, 1295. [18] Mansi,
l.c.,
IV, 1287. [19] Mansi,
l.c. IV, 1287. [20] Mansi,
l.c.,
IV, 1294 sq. [21] Mansi,
l.c.,
IV, 1287 sq. [22] Epist. 190; Corpus Scriptorum ecclesiasticorum latinorum, 57, p. 159 sq. [23] Mansi, l.c.,
VI, 124. [24] Mansi, l.c.,
VI, 351-354. [25] Migne, P. L.,
77, 478; Mansi, l.c., IX, 1048. [26] Mansi,
l.c.,
IV, 891. [27] Matth.,
III, 17; XVII, 5; II Petr., 17. [28] Matth.,
IX, 2-6; Luc., V, 20-24; VII, 48 et alibi. [29] Matth.,
VIII, 3; Marc, I, 41; Luc., V, 13; Ioann.,
IX et alibi. [30] Ioann.,
XI, 43; Luc., VII, 14 et alibi. [31] [32] Isai., LIII, 5; Matth.,
VIII, 17. [33] Summ. Theol.,
III, q. II, a. 2. [34] Matth., XVI, 14. [35] Ordo Missae.
[36] I Ioann., IV, 3. [37] I Cor., XII, 12. [38] Ephes., IV, 16. [39] Litt. Encycl. Mortalium animos. [40] Mansi, l.c., 1290. [41] Luc.,
II, 34. [42] Act.,
IV, 13. [43] Mansi, l.c., IV, 891. [44] Luc.,
I, 43. [45] Ephes.,
VII, 18-20. [46] De carne Chr., 17, P.
L., II, 781. [47] Mansi, l.c., IV, 599. [48] Summ Theol., I,
q. XXV, a. 6. [49] In Matth.,
I, 6. [50] [51] Epist. Encyl. Octobri mense adventante, die XXII Sept. MDCCCXCI.
[52] Epist. Encycl. s. c. [53] Mansi,
l.c.,
IV, 891. [54] Litt.
Encycl. Casti connubii, die XXI Decemb. MDCCCCXXX. [55] Litt.
Encycl: Divini illius Magistri, die XXI Decemb. MDCCCCXXIX; [56] Litt. Apost.
Neminem fugit,
die XIV Ian. MDCCCXXXXII. [57] Phil., IV, 7. |