PAPA PIO XII SEMPITERNUS REX CHRISTUS XV CENTENARIO 8 settembre 1951(1) L'eterno
re Cristo, prima di promettere a Pietro, figlio di Giovanni, il governo della
chiesa, avendo domandato ai discepoli che cosa pensassero
di lui gli uomini e gli stessi apostoli, lodò con singolare encomio quella
fede che doveva vincere gli assalti e le tempeste infernali, e che Pietro,
illuminato dalla luce del Padre celeste, aveva espresso con queste parole:
«Tu sei il Cristo Figlio del Dio vivente» (Mt
16,16). Questa fede,
che produce i serti degli apostoli, le palme dei martiri, i gigli delle
vergini, e che è virtù di Dio per la salvezza d'ogni credente
(cf. Rm 1,16), è stata
efficacemente difesa e splendidamente illustrata in modo particolare da tre
concili ecumenici, quello di Nicea, quello di Efeso
e quello di Calcedonia, di cui ricorre alla fine di quest'anno il XV
centenario. È conveniente che questo lietissimo avvenimento sia celebrato
così a Roma come in tutto il mondo cattolico con quelle solennità che, con
soave commozione dell'animo, ordiniamo, dopo aver
reso grazie a Dio, ispiratore d'ogni consiglio salutare. Come infatti Pio XI, Nostro predecessore di f.m., nell'anno
1925 in quest'alma città volle solennemente commemorare sacro concilio di
Nicea, e parimenti nell'anno 1931 rievocò nell'enciclica Lux veritatis il
sacro concilio di Efeso, così Noi
in questa lettera, con uguale apprezzamento e premura, ricordiamo il concilio di Calcedonia; poiché i
sinodi di Efeso e di Calcedonia, riguardando l'unione ipostatica del Verbo
incarnato, sono tra loro indissolubilmente legati; l'uno e l'altro fin
dall'antichità furono tenuti in sommo onore sia presso gli orientali, che ne
fanno memoria anche nelle loro liturgie, sia presso gli occidentali, come
attesta lo stesso san Gregorio Magno, il quale esaltandoli non meno dei due
concili ecumenici celebrati nel secolo precedente, cioè il Niceno e il
Costantinopolitano, scrisse queste memorande parole: «Su questi, come su di una pietra quadrata, si eleva l'edificio della
santa fede, e chi non si appoggia alla loro solidità, qualunque sia la sua
vita e la sua azione, anche se può sembrare una pietra, tuttavia giace fuori
dell'edificio».(2) Ma se
si considerano attentamente questo avvenimento e le
sue circostanze, due punti chiaramente emergono, che Noi vogliamo, quant'è
possibile, mettere in luce: cioè il primato del romano pontefice, che rifulse
manifestamente dalla gravissima
controversia di fede cristologica, e la grandissima importanza della
definizione dogmatica del concilio di Calcedonia. Al primato del pontefice
romano rendano senza esitazione il debito omaggio riverente, seguendo
l'esempio e le orme dei loro padri, coloro che, per la malvagità dei tempi,
specialmente nei paesi orientali, sono separati dal seno e dall'unità della
chiesa; questa dottrina, guardando
all'interno del mistero di Cristo con più puro intuito della mente, accolgano finalmente intera quelli che sono irretiti negli
errori di Nestorio e di Eutiche; e la stessa dottrina considerino con più
profonda aderenza al vero coloro che, animati da esagerato desiderio di
novità, osano scardinare in qualche modo i termini legittimi e inviolabili,
quando scrutano il mistero con cui siamo stati redenti. Finalmente tutti coloro che portano il nome di cattolici prendano di qui un
forte incitamento a coltivare col pensiero e con la parola la preziosissima
perla evangelica, professando e
conservando intemerata la fede, con l'aggiunta però di quel che vale di
più la testimonianza cioè della propria vita, in cui, allontanato con l'aiuto
della divina misericordia tutto ciò che sa di dissonante, di indegno e di
riprovevole, risplenda la purezza delle virtù; e in tal modo avverrà che essi
partecipino alla divinità di Colui che si è degnato farsi partecipe della
nostra umanità. I Ma, per procedere con ordine, bisogna rifarsi all'origine dei
fatti da commemorare.
L'autore di tutta la controversia, che si agitò nel concilio di Calcedonia,
fu Eutiche, sacerdote e archimandrita di un celebre monastero di
Costantinopoli. Datosi a combattere a fondo l'eresia di Nestorio, che affermava due persone in Cristo, cadde
nell'errore opposto. «Molto imprudente e assai ignorante»,(3) con incredibile
pertinacia faceva queste asserzioni: bisogna distinguere due momenti: prima
dell'incarnazione le nature di Cristo erano due, cioè l'umana e la divina; ma
dopo l'unione non vi fu che una sola natura, avendo il Verbo assorbito
l'uomo; da Maria vergine ha avuto origine il corpo del Signore, che però non
è della stessa sostanza e materia nostre, giacché esso è umano, ma non
consostanziale a noi né a colei che ha partorito Cristo secondo la carne;(4) perciò Cristo non
è nato né ha patito né è stato crocifisso né è risorto in una vera natura
umana. Ciò dicendo Eutiche non si accorgeva che
prima dell'unione la natura umana di Cristo non esisteva affatto, perché
cominciò a esistere dal momento della sua
concezione; che dopo l'unione è assurdo pensare che di due nature se ne
faccia una sola, perché in nessun modo le due nature vere e reali si possono
ridurre ad una, tanto più che la natura divina è infinita e immutabile. Chi
considera con sano giudizio tali opinioni, vede facilmente che tutto il
mistero della divina economia svanisce in ombre vane e impalpabili. Alle
persone assennate l'opinione di Eutiche apparve
evidentemente del tutto nuova, assurda, in assoluta contraddizione con gli
oracoli dei profeti e i testi del Vangelo, come pure col Simbolo apostolico e
col dogma di fede sancito a Nicea: un'opinione attinta alle fonti impure di
Valentino e di Apollinare. In un
sinodo particolare, riunito a Costantinopoli e presieduto da san Flaviano
vescovo della medesima città, Eutiche, che andava
disseminando ostinatamente e largamente i suoi errori per i monasteri, su
formale accusa di eresia del vescovo Eusebio di Dorileo, fu condannato. Ma
Eutiche, come se la condanna fosse ingiusta per lui, che reprimeva la
rinascente empietà di Nestorio, si appellò al giudizio di alcuni
vescovi di grande autorità. Una siffatta lettera di protesta ricevette lo
stesso san Leone Magno, pontefice della sede apostolica, le cui splendide e
solide virtù, la vigile sollecitudine per la religione e per la pace, la
strenua difesa della verità e della dignità della cattedra romana, l'abilità
nel trattare gli affari, pari all'armoniosa eloquenza, riscuotono
l'inesauribile ammirazione di tutti i secoli. Nessuno più di lui sembrava
capace e idoneo a rintuzzare l'errore di Eutiche,
perché nelle sue allocuzioni e nelle sue lettere con magnificenza pari alla
pietà egli soleva esaltare e celebrare il mistero, mai abbastanza predicato,
dell'unica persona e delle due nature in Cristo: «La chiesa cattolica vive e prospera di questa fede, per cui in Gesù Cristo non si crede né l'umanità senza la
divinità né la divinità senza l'umanità».(5) Ma
l'archimandrita Eutiche, avendo poca fiducia nel patrocinio del romano
pontefice, appigliandosi alle astuzie e agli inganni, per mezzo di Crisafio,
al quale era legato da stretta amicizia e che era molto accetto
all'imperatore Teodosio II, ottenne dallo stesso imperatore che la sua causa
fosse riveduta e si riunisse ad Efeso un altro concilio, cui presiedesse
Dioscoro, vescovo di Alessandria. Questi, intimo
amico di Eutiche, ma avverso a Flaviano, vescovo di
Costantinopoli, ingannato da falsa analogia di dogmi, andava dicendo che come
Cirillo, suo predecessore, aveva difeso una sola persona in Cristo, così egli
voleva difendere con tutte le forze una sola natura in Cristo dopo
l'«unione». San Leone Magno, per motivo di pace, non ricusò di mandarvi i
suoi legati, che portassero, insieme con altre due
lettere - una al sinodo, l'altra a Flaviano, in cui gli errori eutichiani erano confutati con la chiarezza di una
dottrina perfetta e copiosa. Ma in
questo sinodo Efesino, che Leone denominò giustamente latrocinio, arbitri
Dioscoro ed Eutiche, tutto fu manipolato con violenza; fu negato ai legati
apostolici il primo posto nel consesso; fu proibito di leggere le lettere del
sommo pontefice, i voti dei vescovi furono estorti per via d'inganni e di
minacce; insieme con altri Flaviano fu accusato di
eresia, privato dell'ufficio pastorale e gettato in carcere, dove morì. E la temerità del furibondo Dioscoro arrivò a tal punto
che (nefando delitto!) osò lanciare la scomunica alla suprema autorità
apostolica. Appena Leone venne a sapere per mezzo
del diacono Ilaro le malefatte del conciliabolo brigantesco, disapprovò tutto
ciò che là si era fatto e decretato, ordinandone un nuovo esame, e ne soffrì
acerbo dolore, alimentato dai frequenti appelli al suo giudizio da parte di
molti vescovi deposti. Degno
di menzione è ciò che scrissero in quella circostanza Flaviano e Teodoreto di
Ciro al supremo pastore della chiesa. Così si esprime Flaviano: «Volgendo,
come per un partito preso, tutte le cose iniquamente a mio danno, dopo
quell'ingiusta sentenza pronunziata contro di me [da Dioscoro], come a lui
piacque, mentre io mi appellavo al trono dell'apostolica sede di Pietro,
principe degli apostoli, e a tutto il beato sinodo soggetto a vostra santità,
subito mi vidi circondato da molti soldati, che non mi permettevano di
rifugiarmi presso il santo altare, ma cercavano di
tirarmi fuori della chiesa».(6) E questo scrive Teodoreto:
«Se Paolo, araldo della verità, si recò dal grande Pietro, molto più noi
umili e piccoli ricorriamo alla vostra apostolica sede, per ottenere da voi rimedio alle piaghe delle chiese. Perché
a voi spetta esercitare il primato su tutte. ... Io aspetto il
giudizio della vostra apostolica sede. ... Anzitutto io prego di essere
istruito da voi, se debba rassegnarmi a questa
ingiusta deposizione oppure no; attendo la vostra sentenza».(7) Per
cancellare tanta macchia, Leone spinse con insistenti lettere Teodosio e
Pulcheria a porre rimedio a così tristi condizioni di cose e perciò a
radunare nei confini dell'Italia un nuovo concilio che riparasse
le malefatte di quello Efesino. Un giorno ricevendo nella Basilica Vaticana
Valentiniano III, la madre di lui Galla Placidia e
la moglie Eudossia, circondato da una fitta corona di vescovi, con gemiti e
pianto li indusse a provvedere immediatamente secondo le loro forze al
crescente disagio della chiesa. Allora scrisse un imperatore all'altro;
scrissero le stesse regine. Ma invano: Teodosio,
circondato da astuzie e da inganni, non una riparò delle ingiustizie
commesse. Ma quando l'imperatore inopinatamente morì, sua sorella Pulcheria
assunse il governo e prese come marito, associandolo
nell'impero, Marciano, ambedue stimati per pietà e saggezza. Allora Anatolio,
che Dioscoro aveva messo arbitrariamente sulla cattedra di Flaviano,
sottoscrisse la lettera di Leone a Flaviano intorno all'incarnazione del
Verbo; la salma di Flaviano fu trasportata con grande
pompa a Costantinopoli; i vescovi deposti furono restituiti alle loro sedi; unanime
divenne la riprovazione dell'eresia eutichiana, sicché non si vedeva più la
necessità di un nuovo concilio, tanto più che le condizioni dell'impero
romano erano malsicure a causa delle invasioni barbariche. Tuttavia
il concilio si radunò e si celebrò per desiderio dell'imperatore e col
consenso del sommo pontefice. Calcedonia
era una città della Bitinia, presso il Bosforo di Tracia, di fronte a
Costantinopoli, situata sull'opposta sponda. Quivi nell'ampia basilica
suburbana di S. Eufemia vergine e martire, l'8 ottobre, partiti da Nicea,
dov'erano già a tale scopo raccolti, si riunirono i
Padri, in numero di circa seicento, tutti dei paesi orientali, eccetto due
africani profughi dalla patria. Collocato
in mezzo il libro dei Vangeli, davanti ai cancelli del santo
altare prendevano posto diciannove rappresentanti dell'imperatore e
del senato. Il compito di legati pontifici fu affidato ai piissimi personaggi
Pascasino, vescovo di Lilibeo in Sicilia, Lucenzio, vescovo di Ascoli, Bonifacio e Basilio sacerdoti, ai quali si
aggiunse Giuliano, vescovo di Cos, per aiutarli con la sua diligente opera. I
legati del romano pontefice occupavano il primo posto tra i vescovi; per
primi sono nominati, per primi prendono la parola, per primi firmano gli atti
e, in forza della loro autorità delegata, confermano o rigettano i voti degli
altri, come avvenne apertamente nella condanna di Dioscoro che essi
ratificarono con queste parole: «Il
santissimo e beatissimo arcivescovo della grande e antica Roma, Leone, per
mezzo di noi e di questo santo sinodo, insieme col
beatissimo e degnissimo di lode Pietro apostolo, che è la pietra e la base
della chiesa cattolica, e il fondamento della fede ortodossa, ha spogliato
lui [Dioscoro] della dignità episcopale come anche lo ha rimosso da ogni
ministero sacerdotale».(8) Del
resto, che non solo i legati pontifici abbiano esercitato l'autorità di
presiedere, ma che il diritto e l'onore di presiedere sia
stato anche riconosciuto loro da tutti i padri del concilio, senza alcuna
opposizione, risulta chiaro dalla lettera sinodica inviata a Leone: «Tu in
verità - essi scrivono - presiedevi come il capo alle membra dimostrando
benevolenza in coloro che tenevano il tuo posto».(9) Non
vogliamo qui passare in rassegna i singoli atti del concilio, ma soltanto
toccarne brevemente i principali, in quanti sono utili a porre in luce la
verità e a giovare alla religione. Pertanto non possiamo, dal momento che si
agita la questione della dignità della sede apostolica, passare sotto
silenzio il canone 28 di quel concilio, nel quale si attribuiva il secondo
posto di onore dopo la sede romana alla sede
episcopale di Costantinopoli, come città imperiale. Sebbene nulla vi sia
stato fatto contro il divino primato di giurisdizione, che da tutti era
riconosciuto, tuttavia quel canone, compilato in assenza e contro la volontà
dei legati pontifici, e perciò clandestino e surrettizio, è destituito di ogni valore giuridico e da san Leone fu riprovato e
condannato in molte lettere. E del resto a tale sentenza di
annullamento aderirono Marciano e Pulcheria, anzi lui stesso Anatolio,
il quale, scusando la riprovevole audacia di quell'atto; così scrisse a
Leone: «Di quelle cose che nei giorni scorsi sono state decretate nel
concilio universale di Calcedonia a favore della sede costantinopolitana, sia
certa vostra beatitudine che io non ho alcuna colpa ...,
ma è il reverendissimo clero della chiesa costantinopolitana, che ha avuto
questo desiderio ...; essendo state riservate all'autorità di vostra
beatitudine tutta la validità e l'approvazione di tale atto».(10) II Ma
veniamo ormai al cardine di tutta la questione, e cioè
alla solenne definizione della fede cattolica, con cui fu rigettato e
condannato il pernicioso errore di Eutiche. Nella quarta sessione dello
stesso sacro sinodo, fu richiesto dai rappresentanti imperiali che si componesse una nuova formula di fede; ma il legato
pontificio Pascasino, interpretando il voto di tutti, rispose che ciò non era
affatto necessario, essendo sufficienti i Simboli di fede e i canoni già in
uso nella chiesa, prima tra essi, nel caso presente, la lettera di Leone a
Flaviano: «In terzo luogo poi (cioè dopo i Simboli Niceno e Costantinopolitano e la loro
esposizione fatta da san Cirillo nel Concilio Efesino) gli scritti inviati
dal beatissimo e apostolico Leone, papa della chiesa universale, contro
l'eresia di Nestorio e di Eutiche, hanno già indicato quale sia la vera fede.
Similmente anche il santo sinodo questa stessa fede
tiene e segue».(11) Giova
qui ricordare che questa importantissima lettera di
san Leone a Flaviano intorno all'incarnazione del Verbo fu letta nella terza
sessione del concilio; e appena tacque la voce del lettore, tutti i presenti
gridarono insieme unanimi: «Questa è la fede dei padri, questa è la fede degli apostoli.
Tutti crediamo così, gli ortodossi credono così. Sia
scomunicato chi non crede così. Pietro così ha parlato per bocca di Leone».(12) Dopo questo, in pieno consenso tutti dissero che il documento
del romano pontefice concordava perfettamente con i Simboli Niceno e
Costantinopolitano. Nondimeno nella quinta sessione
sinodale, su rinnovata richiesta dei rappresentanti di Marciano e del senato,
fu preparata una nuova formula di fede da un consiglio scelto di vescovi di
varie regioni, che si erano riuniti nell'oratorio della Basilica di Santa
Eufemia; essa è composta di un prologo, del Simbolo Niceno e del Simbolo
Costantinopolitano, allora promulgato per la prima volta, e della solenne
condanna dell'errore eutichiano. Tale formula fu approvata dai padri del
concilio con unanime consenso. Crediamo
ora di fare cosa degna, venerabili fratelli, se Ci fermiamo un poco a
spiegare il documento del romano pontefice, che rivendica splendidamente la
fede cattolica. Anzitutto contro Eutiche che andava dicendo: «Confesso che il
Signore nostro era di due nature prima dell'unione; dopo l'unione invece confesso
una sola natura»,(13) non senza
sdegno così il santissimo pontefice contrappone la luce della folgorante
verità: «Mi meraviglio che una sua
formula così assurda e così perversa non sia stata riprovata da alcuna
protesta dei giudici...; mentre è egualmente empio asserire nel Figlio
unigenito di Dio due nature prima dell'incarnazione come ammettere in lui una
sola natura dopo che il Verbo si è fatto carne».(14) Né con minore energia il papa colpisce
Nestorio, che nell'errore va all'eccesso contrario: «In forza di quest'unità
di persona da ammettersi nelle due nature, si legge che il Figlio dell'uomo è
disceso dal cielo, quando il Figlio di Dio assume la carne dalla Vergine,
dalla quale è nato. E ancora si dice che il Figlio
di Dio è stato crocifisso e sepolto, mentre egli ha
sofferto queste cose non nella divinità stessa, per la quale l'Unigenito è
coeterno e consostanziale al Padre, ma nella sua debole natura umana. Sicché
tutti professiamo anche nel Simbolo che l'unigenito
Figlio di Dio è stato crocifisso e sepolto».(15) Oltre la distinzione delle due nature in
Cristo, vien qui rivendicata con molta chiarezza anche la distinzione delle
proprietà e delle operazioni dell'una e dell'altra natura: «Salva dunque -
egli dice - la proprietà dell'una e dell'altra natura, confluenti nell'unica
persona, è stata assunta l'umiltà dalla maestà, la debolezza dalla forza, la
mortalità dall'eternità».(16) E ancora: «L'una e l'altra
natura conservano senza minorazione la loro proprietà».(17) Ma
la duplice serie di quelle proprietà e operazioni si attribuisce all'unica
persona del Verbo, perché «Uno ... e il medesimo è veramente Figlio di Dio e
veramente Figlio dell'uomo».(18) per
cui: «Operano dunque l'una e l'altra natura con mutua comunione ciò
che loro è proprio, cioè il Verbo opera ciò che è
proprio del Verbo e la carne esegue ciò che è proprio della carne».(19) Qui
appare la ben nota comunicazione degli idiomi, come si suol dire, che Cirillo
giustamente difese contro Nestorio, appoggiandosi al solito
principio che le due nature di Cristo sussistono nell'unica persona del Verbo,
del Verbo cioè generato dal Padre prima di tutti i secoli, secondo la
divinità, è nato da Maria nel tempo, secondo l'umanità. Questa profonda dottrina, attinta dal
Vangelo, senza sconfessare ciò che era stato definito nel concilio Efesino,
condanna Eutiche, mentre non risparmia Nestorio; e con essa
concorda perfettamente la definizione dogmatica del concilio Calcedonese, la
quale parimenti afferma con chiarezza ed energia due distinte nature e una
persona in Cristo con queste parole: «Il santo, grande e universale sinodo
condanna (quelli) che fantasticano di due nature del
Signore prima dell'unione, e ne immaginano una dopo l'unione. Noi
dunque, sulle orme dei santi padri, insegniamo in pieno accordo a confessare
un solo e medesimo Figlio e Signore nostro Gesù Cristo; il medesimo perfetto
nella divinità e perfetto nell'umanità, Dio vero e uomo vero, fatto di anima razionale e di corpo, consostanziale al Padre
secondo la divinità, consostanziale a noi secondo l'umanità, simile a noi in
tutto fuorché nel peccato; generato dal Padre prima dei secoli secondo la
divinità, da Maria Vergine genitrice di Dio, secondo l'umanità, negli ultimi
tempi, per noi e per la nostra salvezza; un solo e medesimo Cristo, Figlio,
Signore, Unigenito da riconoscersi in due nature senza confusione, senza
separazione, in nessun modo tolta la differenza delle nature per ragione
dell'unione, e anzi salva la proprietà dell'una e dell'altra natura
concorrenti in una sola persona e sussistenza: non in due persone scisso o
diviso, ma un solo e medesimo Figlio e Unigenito Dio Verbo, Signore Gesù
Cristo».(20) Se
si domanda per qual motivo il linguaggio del concilio di Calcedonia si
distingua per chiarezza ed efficacia nell'impugnare l'errore, crediamo
dipenda dal fatto che, messa da parte ogni ambiguità, si adoperano termini
molto appropriati. Difatti, nella definizione calcedonese, alle voci persona
e ipostasi (prósôpon e ypóstasis) si attribuisce uguale significato;
invece al termine natura (fýsis) si dà un senso diverso, né mai il
significato di esso è attribuito ai due primi. Pertanto a torto pensavano una volta
nestoriani ed eutichiani e oggi vanno dicendo alcuni storici, che il concilio
di Calcedonia ha corretto ciò che si era definito nel concilio di Efeso. L'uno completa l'altro; la sintesi poi armonica
della dottrina cristologica fondamentale appare definitiva nel secondo e nel
terzo concilio di Costantinopoli. È
veramente doloroso che alcuni antichi avversari del concilio Calcedonese,
detti anch'essi monofisiti, abbiano respinto una fede così pura, così sincera
e integra, a causa di alcune espressioni di antichi
mal comprese. Difatti, sebbene essi fossero avversi ad Eutiche, che parlava
assurdamente di mescolanza delle nature di Cristo,
pure si attaccarono tenacemente alla nota formula: «Una è la natura del Verbo
incarnata», di cui si era servito san Cirillo Alessandrino, come se fosse di
sant'Atanasio, ma in senso ortodosso, perché egli intendeva la natura nel
significato di persona. I padri di Calcedonia però avevano eliminato ogni
equivoco e ogni incertezza da quei termini: giacché essi, equiparando la
terminologia trinitaria a quella cristologica, identificarono la natura e
l'essenza (ousía) da una parte e la persona e l'ipostasi dall'altra,
distinguendo bene tra loro le due coppie di termini, mentre i suddetti
dissidenti identificarono con la persona la natura, ma non l'essenza. Si deve
perciò dire, secondo il linguaggio comune e chiaro, che in
Dio c'è una natura e tre persone, ma in Cristo c'è una persona e due nature. Per il
motivo qui addotto accade che ancora oggi alcuni gruppi di dissidenti sparsi
in Egitto, in Etiopia, in Siria, in Armenia e altrove, nel formulare la dottrina
dell'incarnazione del Signore sembrano deviare dal retto sentiero piuttosto
con le parole; il che si può arguire dai loro documenti liturgici e
teologici. Del
resto già nel secolo XII, un uomo, che presso gli armeni godeva
di grande autorità, confessava candidamente il suo pensiero intorno a
questa materia: «Noi diciamo che Cristo è una natura non per via di
confusione, alla maniera di Eutiche, né di
mutilazione, come voleva Apollinare, ma secondo la mente di Cirillo
Alessandrino, il quale nel libro Scholia adversus Nestorium dice: Una
è la natura del Verbo incarnato, come hanno insegnato i padri. ... E noi pure l'abbiamo appreso dalla tradizione dei santi,
non introducendo nell'unione di Cristo confusione o mutazione o alterazione
secondo il pensiero degli eterodossi, asserendo una natura, ma nel senso
d'ipostasi, che voi stessi ponete in Cristo; il che è giusto e noi lo
riconosciamo, ed equivale perfettamente alla nostra formula "Una
natura...". Né ricusiamo di dire "due nature" purché non
s'intenda per via di divisione come vuole Nestorio, ma si mantenga chiara
l'inconfusione contro Eutiche e Apollinare».(21) Se il
gaudio e la santa letizia toccano l'apice quando si realizza la parola del
salmo: «Ecco come è bello e giocondo che i fratelli
si trovino insieme uniti» (Sal 132,1); se la gloria di Dio allora specialmente risplende congiunta all'utilità
di tutti quando la piena verità
e la piena carità legano insieme le pecorelle di Cristo, vedano coloro che con amore e dolore
abbiamo qui sopra ricordato, se sia lecito e utile tenersi ancora lontano,
specialmente per un iniziale equivoco di parole, dalla chiesa una e santa,
fondata sugli zaffiri (cf. Is 54,11) cioè sui
profeti e gli apostoli, sulla stessa pietra angolare somma, Gesù Cristo (cf.
Ef 2,20). È del tutto contraria anche alla
definizione di fede del concilio di Calcedonia l'opinione, assai diffusa
fuori del cattolicesimo, poggiata su un passo dell'epistola di Paolo apostolo
ai Filippesi (Fil 2,7), malamente e arbitrariamente
interpretato: la dottrina chiamata kenotica,
secondo la quale in Cristo si ammette una limitazione della divinità del
Verbo; un'invenzione veramente strana che, degna di riprovazione come
l'opposto errore del docetismo, riduce tutto il mistero dell'incarnazione e
redenzione a ombre evanescenti. «Nell'integra e perfetta natura di vero uomo
così insegna eloquentemente Leone Magno, è nato il vero Dio, intero nelle sue
proprietà, intero nelle nostre».(22) Sebbene
nulla vieti di scrutare più a fondo l'umanità di Cristo, anche sotto
l'aspetto psicologico, tuttavia nell'arduo campo di tali studi non mancano coloro che abbandonano più del giusto le posizioni antiche
per costruirne delle nuove, e si servono a torto dell'autorità e della
definizione del concilio Calcedonese per sorreggere le proprie elucubrazioni. Costoro spingono tanto innanzi lo stato
e la condizione della natura umana di Cristo da sembrare che essa sia
ritenuta un soggetto autonomo, come se non sussistesse nella persona dello
stesso Verbo. Ma il concilio Calcedonese, in tutto concorde con quello Efesino, afferma chiaramente che le due nature del
nostro Redentore convergono «in una sola persona e sussistenza» e proibisce
di ammettere in Cristo due individui, di maniera che accanto al Verbo sia
posto un certo «uomo assunto», dotato di piena autonomia. San
Leone, poi, non solo tiene la stessa dottrina, ma indica e dimostra anche la
fonte da cui attinge questi puri principi: «Tutto ciò - egli dice - che da
noi è stato scritto si prova che è stato preso dalla dottrina apostolica ed
evangelica».(23) Difatti
la chiesa fin dai primi tempi, sia nei documenti scritti, sia nella
predicazione, sia nelle preci liturgiche, professa in modo chiaro e preciso
che l'unigenito Figlio di Dio, consostanziale al Padre, nostro Signore Gesù Cristo, Verbo incarnato è nato sulla terra,
ha patito, è stato confitto in croce e, dopo essere risorto dal sepolcro, è
asceso al cielo. Inoltre la sacra Scrittura attribuisce all'unico Cristo,
Figlio di Dio, proprietà umane, e al medesimo,
Figlio dell'Uomo, proprietà divine. Difatti
l'evangelista Giovanni dichiara: «Il
Verbo si fece carne» (Gv 1,14); Paolo poi scrive di lui: «Il quale, già sussistente nella natura di
Dio ... si è umiliato, fatto obbediente fino alla morte»
(Fil 2,6-8); oppure: «Quando venne la pienezza del
tempo, Dio mandò il Figlio suo fatto da donna» (Gal 4,4); e lo stesso divino
Redentore afferma in modo perentorio: «Io e il Padre siamo
una cosa sola» (Gv 10,30); e ancora: «Sono
uscito dal Padre e son venuto nel mondo» (Gv 16,28). L'origine celeste
del nostro Redentore risplende anche in questo testo del Vangelo: «Son disceso dal cielo non per fare la
mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha
mandato» (Gv 6,38). E da quest'altro: «Colui che discende,
è quello stesso che ascende sopra tutti i cieli» (Ef 4,10). Affermazione
che san Tommaso d'Aquino così commenta e illustra: «Chi discende è quegli stesso che ascende. Nel
che è designata l'unità della persona del Dio uomo. Discende infatti ... il Figlio di Dio assumendo la natura umana,
ma ascende il Figlio dell'uomo secondo l'umana natura alla sublimità della
vita immortale. E così lo stesso è il Figlio di Dio, che discende, e il
Figlio dell'uomo che ascende».(24) Questo
stesso concetto già l'aveva felicemente espresso il Nostro predecessore Leone
Magno con queste parole: «Poiché alla
giustificazione degli uomini questo principalmente contribuisce, che
l'Unigenito di Dio si è degnato di essere anche il
Figlio dell'uomo in maniera che quello stesso che è Dio, homooúsios al
Padre, ossia della stessa sostanza del Padre, fosse anche vero uomo e
consostanziale alla Madre secondo la carne; noi godiamo dell'uno e
dell'altro giacché non ci salviamo che in virtù di ambedue, non dividendo
affatto il visibile dall'invisibile, il corporeo dall'incorporeo, il
passibile dall'impassibile, il palpabile dall'impalpabile, la forma del servo
dalla forma di Dio; perché, sebbene uno sussista fin dall'eternità e l'altro
sia cominciato nel tempo, tuttavia, essendo convenuti nell'unione, non
possono più avere né separazione né fine».(25) Solo dunque se con santa e pura fede si
crede che in Cristo non c'è altra persona che quella del Verbo, in cui
confluiscono le due nature, l'umana e la divina, del tutto
distinte fra di loro, diverse per proprietà e operazioni,
appaiono la magnificenza e la pietà della nostra redenzione, mai abbastanza
esaltata. O
sublimità della misericordia e della giustizia divina, che portò soccorso ai
colpevoli e si procurò dei figli! O cieli curvati in
basso affinché, allontanate le brume invernali, apparissero i fiori sulla
nostra terra (cf. Ct 2,11s) e noi diventassimo uomini nuovi, nuova creatura,
nuova fattura, gente santa e prole celeste! Il Verbo ha veramente patito nella sua carne, ha sparso il suo sangue
sulla croce e all'eterno Padre ha pagato un sovrabbondante prezzo di
soddisfazione per le nostre colpe; onde avviene che risplende sicura la
speranza di salvezza a coloro che con fede sincera e con carità operosa
aderiscono a Cristo e, con l'aiuto della grazia da lui procurata, producono
frutti di giustizia.
L'evocazione
di fasti così gloriosi e così insigni della chiesa, di natura sua fa sì che
Noi con amore più vivo rivolgiamo il pensiero agli orientali. Infatti il sacrosanto concilio ecumenico di Calcedonia è
soprattutto un loro monumento glorioso, che certamente durerà per tutti i
secoli: giacché là, sotto la guida della sede apostolica, da un'assemblea di
circa seicento vescovi orientali la dottrina dell'unità di Cristo, per cui le
due nature, divina e umana, concorrono distintamente e senza confusione in
una sola persona, essendo stata adulterata con empia audacia, fu
tempestivamente difesa e mirabilmente dichiarata. Ma
purtroppo molti nei paesi orientali si sono miseramente allontanati per una
lunga serie di secoli dall'unità del corpo mistico di Cristo, di cui l'unione
ipostatica è fulgido esemplare. Non è forse cosa santa, salutare e conforme
alla volontà di Dio che tutti finalmente ritornino
all'unico ovile di Cristo? Per
quanto spetta a Noi, vogliamo che essi sappiano bene che i nostri pensieri
sono di pace e non di afflizione (cf. Ger 29,11).
Peraltro è ben noto che questa disposizione d'animo Noi l'abbiamo
dimostrata anche coi fatti e se, per necessità di cose, Ci gloriamo in
questo, Ci gloriamo nel Signore, il quale è il datore d'ogni buona volontà.
Seguendo dunque le orme dei Nostri predecessori, Ci siamo adoperati
assiduamente perché sia facilitato agli orientali il ritorno alla chiesa
cattolica: abbiamo difeso i loro legittimi riti, promosso gli studi che li
riguardano, promulgato per loro provvide leggi, circondato di cura
particolare la Congregazione per la chiesa orientale istituita nella curia
romana; abbiamo insignito dello splendore della porpora romana il patriarca
degli armeni. Mentre
infieriva la recente guerra con la sequela di miseria, di fame e di malattie,
Noi, senza distinzione tra dissidenti e coloro che sogliono
chiamarci Padre, Ci siamo adoperati ad alleviare dappertutto il peso delle
sciagure: Ci siamo sforzati di aiutare le vedove, i fanciulli, i vecchi, i
malati e saremmo stati più felici se avessimo potuto adeguare i mezzi ai
desideri. A questa sede apostolica dunque, per cui
il presiedere è giovare, a quest'incrollabile rupe di verità piantata da Dio,
quelli che per calamità di tempi si sono da essa separati - guardando e
imitando Flaviano, nuovo Giovanni Crisostomo nel sopportare le prove più dure
per la giustizia, i padri calcedonesi, eletti membri del corpo mistico di
Cristo, il forte Marciano, mite e saggio principe, Pulcheria, giglio fulgido
di regale e intemerata bellezza - non tardino a rendere il dovuto omaggio:
Noi prevediamo quale ricca fonte di beni a comune vantaggio dell'orbe
cristiano scaturirà da questo ritorno all'unità della chiesa. Certo
non ignoriamo quale cumulo inveterato di pregiudizi impedisca
tenacemente che si realizzi la preghiera innalzata da Cristo all'eterno Padre
per i seguaci dell'evangelo, nell'ultima cena: «Che
tutti siano una cosa sola» (Gv 17,21). Ma conosciamo
anche che la forza della preghiera è così grande, se gli oranti, in compatta
schiera, ardono di sicura fede in una coscienza pura, che si può spostare
perfino una montagna e precipitarla nel mare (cf. Mc 11,23). Desideriamo
dunque ardentemente che tutti coloro cui sta a cuore
il caldo richiamo ad abbracciare l'unità cristiana (e nessuno che appartenga
a Cristo può far poco conto di una cosa così grave), innalzino preci e
suppliche a Dio, autore e fonte di ordine, unità e bellezza, affinché i voti
lodevoli degli uomini migliori si realizzino quanto prima. A spianare
certamente il cammino per cui si deve raggiungere
tale meta, vale l'indagine senza ira e passione con cui, oggi più che nel
passato, sogliono ricostruirsi e vagliarsi i fatti antichi. Ma c'è
un altro motivo che con grande urgenza esige che le
schiere denominate cristiane quanto prima si uniscano e combattano sotto un
solo vessillo contro i tempestosi assalti del nemico infernale. Chi non ha
orrore dell'odio e della ferocia con cui i nemici di Dio, in molti paesi del
mondo, minacciano di distruggere o cercano di sradicare tutto ciò che c'è di
divino e di cristiano? Contro le associate schiere di costoro, non possono
continuare, divisi e dispersi, a perder tempo tutti quelli che, segnati dal
carattere battesimale, sono destinati per dovere alla buona battaglia di
Cristo. I
ceppi, le sofferenze, i tormenti, i gemiti, il sangue di coloro che, noti o ignoti, moltitudine senza numero, in questi ultimi tempi e
ancora oggi, per la costanza della virtù e la professione della fede
cristiana hanno sofferto e soffrono, con voce sempre più alta eccitano tutti
ad abbracciare questa santa unità della chiesa. La speranza del ritorno dei fratelli e
dei figli già da lungo tempo separati da questa sede apostolica è rafforzata dalla croce inasprita e insanguinata dalle
sofferenze di tanti altri fratelli e figli: nessuno impedisca o trascuri
l'opera salutare di Dio! Ai benefici e al gaudio di questa unità,
con paterna esortazione, invitiamo e richiamiamo anche coloro che seguono gli
errori nestoriani e monofisitici. Si persuadano essi che Noi reputiamo come
una fulgidissima gemma della corona del Nostro apostolato, se Ci sia dato di poter abbracciare con amore e onore coloro che
sono tanto più cari a Noi, quanto più il loro lungo distacco Ce ne ha acuito
il desiderio. Finalmente è Nostro voto che, quando per
la vostra sollecita opera, venerabili fratelli, sarà celebrata la
commemorazione del sacrosanto concilio Calcedonese, tutti ne traggano impulso
ad aderire con solidissima fede a Cristo nostro
redentore e re. Nessuno, allettato dalle aberrazioni dell'umana filosofia e
ingannato dalle tortuosità del linguaggio umano, osi scuotere col dubbio o
pervertire con nocive innovazioni il dogma definito a Calcedonia, che
cioè in Cristo ci sono due vere e perfette nature,
una divina e l'altra umana, congiunte insieme ma non confuse, e sussistenti
nell'unica persona del Verbo. Anzi, uniti strettamente con l'Autore della
nostra salvezza, che è «Via di santi costumi, Verità di divina
dottrina e Vita di eterna beatitudine»,(26) tutti riamino in lui la propria natura restaurata,
onorino la libertà redenta e, rigettata la stoltezza del mondo vecchio,
passino con piena letizia alla sapienza dell'infanzia spirituale, che non
conosce vecchiezza. Accolga
questi ardentissimi voti Dio uno e trino, la cui natura è bontà e la volontà
è potenza, per intercessione della vergine Maria Madre di Dio, dei santi
apostoli Pietro e Paolo, di Eufemia vergine
calcedonese e martire trionfatrice. E voi, venerabili fratelli, unite per
questo le vostre alle Nostre preghiere e fate
che quanto vi abbiamo scritto venga a conoscenza di
quanti più è possibile. Grati fin d'ora di questo aiuto,
a voi e a tutti i sacerdoti e i fedeli affidati alla vostra cura pastorale,
impartiamo di gran cuore l'apostolica benedizione, nel cui auspicio possiate
sottomettervi più volentieri al giogo leggero e soave di Cristo re ed essere
sempre più simili nell'umiltà a Colui del quale volete partecipare la gloria. Roma, presso San Pietro, l'8 settembre, festa della natività di
Maria vergine, nell'anno 1951, XIII del Nostro pontificato. PIO PP. XII (1) PIUS PP. XII, Litt. enc. Sempiternus Rex de oecumenica Chalcedonensi Synodo quindecim abhinc saeculis celebrata, [Ad venerabiles Fratres Patriarchas, Primates, Archiepiscopos,
Episcopos aliosque locorum Ordinarios, pacem et communionem cum Apostolica Sede habentes], 8 septembris 1951: AAS
43 (1951), pp. 625-644. Celebrazioni
del XV centenario del concilio di Calcedonia. Premesse dottrinali e storiche di quel concilio (8 ottobre -1 °
nov. 451). Le prime vicende dell'eresia di Nestonio e di Eutiche. Il «latrocinio» di Efeso.
Ricorso di Flaviano e di altri vescovi alla sede
apostolica di Roma e intervento di papa Leone. Il concilio:
definizione delle due nature nell'unica persona del Verbo e primato della
sede apostolica di Roma. «Pietro ha parlato per bocca di Leone».
Chiarezza e precisione di termini nella definizione di Calcedonia. Alcune
moderne deviazioni. Dottrina evangelica e apostolica. Appello
ai fratelli separati perché tornino all'unico gregge; unità contro i nemici
di Dio e di Cristo; comunanza di martirio e di sangue. (2) Registrum Epistularum,
I, 25 (al. 24): PL
77, 478; ed. EWALD, I, 36. (3) S. LEO
M., Ep. 28 (Ad
Flavianum), 1: PL 54, 755s. (4) Cf.
FLAVIANUS, Ep. 26 (Ad
Leonem M.): PL 54, 745. (5) S. LEO
M., Ep. 28, 5: PL 54, 777. (6)
SCHWARTZ, Acta Conciliorum
Oecumenicorum, II, vol. II,
pars 1. p 78. (7) THEODORETUS, Ep. 52 (Ad Leonem M.),
1.5.6: PL 54, 847 et 851; cf. PG 83, 1311s et 1315s. (8) MANSI,
Conciliorum amplissima collectio, VI, 1047 (Act.
III); SCHWARTZ, II, vol. I, pars altera, p. 29 [225]
(Act. II). (9)
SYNODUS CHALCEDONENSIS, Ep. 98 (Ad
Leonem M.), 1: PL 54, 951; MANSI, VI,
147. (10)
ANATOLIUS, Ep. 132 (Ad Leonem M.), 4: PL 54, 1084 MANSI, VI, 278s. (11) MANSI, VII, 10. (12) SCHWARTZ, II, vol. I, pars altera, p. 81 [277] (Act;
III); MANSI, VI, 971 (Act. II). (13) S.
LEO M., Ep. 28, 6: PL 54, 777. (14) Ibid. (15) S.
LEO M., Ep. 28, 5: PL 54, 771; cf. S.
AUGUSTINUS, Contra sermonem
Arianorum, c. 8: PL 42, 688. (16) S. LEO M., Ep. 28, 3: PL
54, 763; cf. S. LEO M., Serm. 21, 2: PL 54,192. (17) S. LEO M., Ep. 28, 3: PL 54, 765; cf. Serm. 23, 2: PL 54, 201: (18) S. LEO M., Ep. 28, 4: PL
54, 767. (19) Ibid. (20)
MANSI, VII, 114 et 115. (21) Ita
NERSES IV ( 1173) in Libello confessionis fidei,
ad Manuelem Com nenum imperatorem
byzantinum: I. CAPPELLETTI, S. Narsetis Claiensis, Armeno
rum Catholici, opera, I, Venetiis 1833, pp. 182-183. (22) S. LEO M., Ep. 28, 3: PL 54, 763; cf. Serm. 23, 2: PL 54, 201. (23) S. LEO M., Ep. 152: PL 54, 1123. (24) S. THOMAS
AQ., Comm. in Ep. ad Ephesios,
c. IV, lect. III, circa finem. (25) S.
LEO M., Serm. 30, 6: PL 54, 233s. (26) S.
LEO M., Serm. 72, 1: PL 54, 390. |