PAPA PAOLO
VI MYSTERIUM ECCLESIAE DICHIARAZIONE CIRCA LA
DOTTRINA CATTOLICA SULLA
CHIESA PER
DIFENDERLA DA ALCUNI
ERRORI ODIERNI IL MISTERO DELLA CHIESA, illuminato
di luce nuova dal Concilio Vaticano II, è stato poi ripetutamente
riconsiderato in numerosi scritti di teologi. Mentre non pochi di essi hanno di certo contribuito a farlo meglio
comprendere, altri invece, a causa del
linguaggio ambiguo o addirittura erroneo, hanno oscurato la dottrina
cattolica, giungendo, talvolta, al punto di opporsi alla fede cattolica anche
in cose fondamentali. Quando, dunque, è stato necessario, non
sono mancati Vescovi di varie nazioni, i quali, nella loro responsabilità « di conservare puro ed
integro il deposito della fede » e nel loro dovere « di annunciare
incessantemente il Vangelo », hanno avuto premura, con dichiarazioni convergenti, di premunire dal pericolo di errore i fedeli affidati alle loro cure. Ed anche la seconda Assemblea generale del Sinodo dei
Vescovi, trattando del sacerdozio ministeriale, ha esposto alcuni punti
dottrinali, importanti per quel che riguarda la costruzione della Chiesa. Parimenti,
la Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede, il cui compito è quello di
« tutelare la dottrina circa la fede e i costumi in tutto il mondo cattolico
», rifacendosi anzitutto ai due Concili Vaticani, intende riassumere e
spiegare alcune verità attinenti al mistero della Chiesa, le quali sono oggi
negate o messe in pericolo. 1. L’UNICITÀ DELLA CHIESA DI CRISTO Unica
è la Chiesa « che il nostro Salvatore, dopo la sua risurrezione, lasciò
alla cura pastorale di Pietro (cf Gv
21,17), della quale affidò a lui e agli altri Apostoli la diffusione e la
guida (cf Mt 18,18ss.), e che
costituì per sempre come colonna e sostegno della verità
(cf 1 Tim 3,15) »; e tale
Chiesa di Cristo, « costituita e organizzata come società in questo mondo, sussiste nella Chiesa cattolica,
governata dal successore di Pietro e dai Vescovi in comunione con lui ».
Questa dichiarazione del Concilio Vaticano II è illustrata dalle parole dello
stesso Concilio, quando afferma che « solo… mediante la Chiesa cattolica di Cristo, strumento universale di
salvezza, è possibile entrare nel pieno possesso di tutti i mezzi di salvezza
»; e che la medesima Chiesa cattolica « è stata arricchita di tutta la verità
divinamente rivelata e di tutti i mezzi di grazia », di cui Cristo ha
voluto dotare la sua comunità messianica. Ciò non toglie che essa, mentre è
ancora pellegrina sulla terra, « poiché comprende peccatori
nel suo seno, sia insieme santa e bisognosa di continua purificazione
»; e nemmeno che « al di fuori della sua struttura » e, più espressamente,
nelle Chiese o comunità ecclesiali, che non sono in perfetta comunione con la
Chiesa cattolica, « si trovino in quantità elementi di santificazione e di
verità che, quali doni propri della Chiesa di Cristo, spingono all’unità
cattolica ». Per tali ragioni, « è necessario che i cattolici
riconoscano con gioia ed apprezzino i valori genuinamente cristiani,
derivanti dallo stesso patrimonio comune, che si riscontrano presso i
fratelli da noi separati »; e che, in un comune sforzo di purificazione e di
rinnovamento, si impegnino per la ricomposizione
dell’unità tra tutti i cristiani, affinché la volontà di Cristo si compia e
la divisione dei cristiani più non continui ad ostacolare la proclamazione
del Vangelo nel mondo. Ma, al tempo stesso, i cattolici sono
tenuti a professare di appartenere, per misericordioso dono di Dio, alla
Chiesa fondata da Cristo e guidata dai successori di Pietro e degli altri
Apostoli, presso i quali permane, intatta e viva, l’originaria tradizione
apostolica, che è patrimonio perenne di verità e di santità della medesima
Chiesa. Non possono, quindi, i fedeli immaginarsi la Chiesa di Cristo come la
somma – differenziata ed in qualche modo unitaria
insieme – delle Chiese e comunità ecclesiali; né hanno facoltà di pensare che
la Chiesa di Cristo oggi non esista più in alcun luogo e che, perciò, debba
esser soltanto oggetto di ricerca da parte di tutte le Chiese e comunità. 2. L’INFALLIBILITÀ DI TUTTA LA CHIESA « Nella sua immensa bontà Dio dispose che
la Rivelazione, da lui fatta per la salvezza di tutte le genti, rimanesse per
sempre nella sua interezza ». A tal fine, egli ha affidato alla Chiesa il
tesoro della parola di Dio, alla cui conservazione, penetrazione ed
applicazione alla vita concorrano insieme i Pastori
e il Popolo santo. Dio stesso, dunque, l’assolutamente
infallibile, ha voluto dotare il suo Popolo nuovo, che è la Chiesa, di
un’infallibilità partecipata, circoscritta alle cose riguardanti la fede e i
costumi; essa appunto si verifica quando tutto il
Popolo di Dio ritiene senza incertezze qualche punto dottrinale attinente a
tali cose; essa, ancora, è in permanente dipendenza dallo Spirito Santo che,
con sapiente provvidenza e con l’unzione della sua grazia, guida la Chiesa
alla verità intera, fino alla venuta gloriosa del suo Signore. Circa questa infallibilità del Popolo di Dio il Concilio
Vaticano II dichiara: « L’universalità dei fedeli, che hanno l’unzione
ricevuta dal Santo (cf 1 Gv 2,20 e
27), non può ingannarsi nel credere, e manifesta questa sua singolare
proprietà mediante il soprannaturale senso della fede di tutto il popolo,
quando “dai Vescovi fino agli ultimi fedeli laici” (S. Agostino, De Praed. Sanct. 14,27) esprime l’unanime suo consenso in cose
riguardanti la fede e i costumi ». Ma lo Spirito Santo illumina e soccorre il
Popolo di Dio, in quanto è il corpo di Cristo, unito
in comunione gerarchica. Lo dice il Concilio Vaticano II, quando alle parole
ora riferite aggiunge: « Mediante quel senso della fede, suscitato e sorretto
dallo Spirito di verità, il Popolo di Dio, sotto la guida del sacro
Magistero, nella cui obbedienza fedele accoglie non già una parola d’uomini,
ma, qual è veramente, la parola di Dio (cf 1 Ts 2,13), indefettibilmente aderisce
“alla fede trasmessa ai credenti una volta per tutte” (Gd 3), con retto giudizio la
penetra più a fondo e più perfettamente la applica nella vita ». Senza dubbio i fedeli, partecipi
anch’essi, in certa misura, dell’ufficio profetico di Cristo, in tante
maniere contribuiscono ad accrescere la comprensione della fede nella Chiesa.
« Cresce infatti – così dice il Concilio Vaticano II
– la percezione delle realtà e delle parole trasmesse, sia mediante la
riflessione e lo studio dei credenti che le meditano nel loro cuore (cf Lc 2,19 e 51), sia mediante
l’intelligenza interiormente sperimentata delle realtà spirituali, sia
mediante la predicazione di coloro che, con la successione episcopale, hanno
ricevuto un sicuro carisma di verità », ed il
Sommo Pontefice Paolo VI osservava che la « testimonianza » che è data
dai Pastori della Chiesa è « saldamente ancorata nella sacra Tradizione e
nella sacra Scrittura, e alimentata dalla vita di tutto il Popolo di Dio ». Tuttavia, per istituzione divina,
ammaestrare i fedeli autenticamente, cioè con
l’autorità di Cristo a diverso titolo loro partecipata, è competenza
esclusiva di quei Pastori, successori di Pietro e degli altri Apostoli; per
questo i fedeli, lungi dal limitarsi ad ascoltarli semplicemente quali
esperti della dottrina cattolica, son tenuti ad aderire al loro insegnamento
impartito in nome di Cristo, proporzionalmente all’autorità che possiedono e
che intendono esercitare. Perciò il Concilio Vaticano II, in sintonia col
Concilio Vaticano I, ha insegnato che Cristo ha
stabilito in Pietro « il perpetuo e visibile principio e fondamento
dell’unità di fede e di comunione »; e il Sommo Pontefice Paolo VI ha
affermato che « il magistero dei Vescovi è, per i credenti, il segno e il
tramite che consente loro di ricevere e di riconoscere la parola di Dio ».
Per quanto, dunque, il sacro Magistero si avvalga
della contemplazione, della condotta e della ricerca dei fedeli, il suo
ufficio non si riduce, però, a ratificare il consenso da loro già espresso;
anzi, nell’interpretazione e nella spiegazione della parola di Dio scritta o
trasmessa, esso può prevenire ed esigere tale consenso. Ed infine, dell’intervento ed aiuto del
Magistero il Popolo di Dio ha particolarmente bisogno, quando dissensi
interni insorgono e si diffondono su una dottrina che dev’essere creduta o
ritenuta; ciò ad evitare che, all’interno dell’unico corpo del suo Signore,
esso sia privato della comunione in un’unica fede (cf Ef 4,4 e 5). 3. L’INFALLIBILITÀ DEL MAGISTERO DELLA CHIESA Gesù Cristo, nell’affidare ai Pastori l’incarico
di insegnare il Vangelo a tutto il suo Popolo e all’intera famiglia umana,
volle dotare il loro Magistero di un adeguato carisma di infallibilità
in cose riguardanti la fede e i costumi. Poiché tali
carisma non proviene da nuove rivelazioni, di cui sarebbero
gratificati il Successore di Pietro e il Collegio episcopale, esso non li
dispensa dall’impegno di scrutare, con l’uso di mezzi appropriati, il tesoro
della divina Rivelazione contenuto nei Sacri Libri, che ci insegnano intatta
la verità che Dio ha voluto fosse scritta in vista della nostra salvezza, e
nella viva Tradizione apostolica. Ma nell’esercizio della loro funzione i
Pastori della Chiesa sono convenientemente assistiti dallo Spirito Santo; e questa assistenza raggiunge il vertice, quando ammaestrano
il Popolo di Dio in modo tale che, per le promesse di Cristo a Pietro e agli
altri Apostoli, il loro insegnamento è necessariamente immune da errore. Questo si verifica
quando i Vescovi dispersi nel mondo, ma in comunione di magistero col
Successore di Pietro, convergono in un’unica sentenza da ritenersi come
definitiva. Lo stesso avviene ancora in modo più evidente, sia quando i
Vescovi con atto collegiale – come nel caso dei Concili ecumenici –
unitariamente al loro Capo visibile definiscono che una dottrina dev’esser
ritenuta, sia quando il Romano Pontefice « parla ex cathedra, quando cioè,
nell’adempimento dell’ufficio di pastore e dottore di tutti i cristiani, con
la sua suprema potestà apostolica definisce che una dottrina sulla fede o sui
costumi dev’esser tenuta dalla Chiesa universale ». Secondo la dottrina
cattolica, l’infallibilità del Magistero della Chiesa si estende non solo al
deposito della fede, ma anche a tutto ciò che è necessario perché esso possa
esser custodito od esposto come si deve. L’estensione, poi, di tale
infallibilità al deposito stesso della fede è una verità che la Chiesa, fin
dalle origini, ha ricevuto come certamente rivelata nelle promesse di Cristo.
Fondandosi appunto su questa verità, il Concilio Vaticano I definì qual è
l’oggetto della fede cattolica: « Si devono credere con
fede divina e cattolica tutte quelle cose che sono contenute nella
parola di Dio scritta o trasmessa, e che dalla Chiesa, con solenne giudizio o
nel magistero ordinario e universale, sono proposte a credere come
divinamente rivelate ». Di
conseguenza, l’oggetto della fede cattolica – che specificamente va sotto il
nome di dogmi – come necessariamente è ed è sempre stato la
norma immutabile per la fede, altrettanto lo è per la scienza teologica. 4. NON SI DEVE ATTENUARE IL DONO DELL’INFALLIBILITÀ
DELLA CHIESA Da quanto è stato detto
circa l’estensione e le condizioni dell’infallibilità del Popolo di
Dio e del Magistero ecclesiastico, consegue che in nessun modo è consentito
ai fedeli di riconoscere nella Chiesa soltanto una « fondamentale »
permanenza nella verità, conciliabile – come vorrebbero alcuni – con errori
qua e là disseminati nelle sentenze insegnate come definitive dal Magistero
della Chiesa, ovvero nel consenso senza incertezze del Popolo di Dio in cose
di fede e di costumi. È vero, sì, che è mediante la fede
salvifica che gli uomini si orientano verso Dio, rivelatesi nel Figlio suo,
Gesù Cristo. Ma a torto da ciò si dedurrebbe che si
possano deprezzare o addirittura negare i dogmi della Chiesa, che esprimono
altri misteri. Anzi, il doveroso orientamento verso Dio mediante la fede è
proprio un’obbedienza (cf Rm
16,26), tale da importare piena conformità alla natura della Rivelazione
divina ed alle sue esigenze. Ora questa Rivelazione, in tutto l’ambito della
salvezza, svela il mistero di Dio che ha mandato il suo
Figlio nel mondo (cf 1 Gv
4,4) e ne insegna l’applicazione alla condotta cristiana; essa esige, inoltre,
che, in piena obbedienza dell’intelletto e della volontà a Dio rivelante, sia
accettato il lieto annuncio della salvezza, com’è infallibilmente insegnato
dai Pastori della Chiesa. I fedeli, dunque, mediante la fede si orientano
verso Dio, rivelatesi in Cristo, come si deve, aderendo a lui nella dottrina
integrale della fede cattolica. Esiste, certo, un ordine e come una
gerarchia dei dogmi della Chiesa, dato che diverso è
il loro nesso col fondamento della fede. Ma questa
gerarchia significa che alcuni dogmi si fondano su altri come principali e ne
sono illuminati. Tutti i dogmi, però,
perché rivelati, devono essere ugualmente creduti per fede divina. 5. NON SI DEVE FALSIFICARE IL CONCETTO DI INFALLIBILITÀ
DELLA CHIESA La trasmissione della divina Rivelazione
da parte della Chiesa incontra difficoltà di vario genere. Esse derivano,
primariamente, dal fatto che gli arcani misteri di Dio « per loro natura
trascendono tanto l’intelletto umano che, quantunque comunicati dalla
rivelazione ed accettati per fede, restano tuttavia velati dalla fede stessa
e come avvolti d’oscurità »; e derivano, poi, dal condizionamento storico che
incide sull’espressione della Rivelazione. In merito a tale condizionamento storico,
si deve anzitutto osservare che il senso contenuto nelle enunciazioni di fede
dipende, in parte, dalla peculiarità espressiva di una lingua usata in una
data epoca ed in determinate circostanze. Inoltre, avviene talora che qualche
verità dogmatica in un primo tempo sia espressa in modo incompleto, anche se falso mai, e che in seguito, considerata in un più ampio
contesto di fede o anche di conoscenze umane, riceva più completa e perfetta
espressione. La Chiesa, ancora, quando fa enunciazioni nuove, intende
confermare o chiarire quel che, in qualche modo, è già contenuto nella
Scrittura o in antecedenti espressioni della Tradizione, ma abitualmente si
preoccupa anche di dirimere certe controversie o di sradicare errori; e di
tutto questo si deve tener conto, perché quelle enunciazioni siano rettamente
interpretate. Da aggiungere, infine, che, sebbene le verità che la Chiesa con
le sue formule dogmatiche intende effettivamente insegnare si distinguano
dalle mutevoli concezioni di una determinata epoca e possano essere espresse
anche senza di esse, può darsi tuttavia che quelle
stesse verità del sacro Magistero siano enunciate con termini che risentono
di tali concezioni. Ciò premesso, si deve dire che le formule dogmatiche del Magistero della
Chiesa fin dall’inizio furono adatte a comunicare la verità rivelata, e che
restano per sempre adatte a comunicarla a chi le comprende rettamente. Ma
questo non vuol dire che ciascuna di esse lo sia
stata o lo resterà in pari misura. Per tale motivo, i teologi si sforzano di
delimitare con esattezza qual è l’intenzionalità d’insegnamento che è propria
di quelle diverse formule, e con questo loro lavoro offrono una qualificata
collaborazione al Magistero vivo della Chiesa, al quale rimangono subordinati. Per lo stesso motivo può,
inoltre, accadere che antiche formule dogmatiche o altre ad esse connesse rimangano vive e feconde nell’uso abituale
della Chiesa, ma con opportune aggiunte espositive ed esplicative, che ne mantengano e chiariscano il senso
congenito. D’altra parte, è anche avvenuto che, nel medesimo uso abituale
della Chiesa, ad alcune di quelle formule sono subentrate espressioni nuove
che, proposte o approvate dal sacro Magistero, ne
indicano l’identico significato in
modo più chiaro e completo. Quanto poi al significato
stesso delle formule dogmatiche, esso nella Chiesa rimane sempre vero e
coerente, anche quando è maggiormente chiarito e meglio compreso. Devono, quindi, i fedeli rifuggire
dall’opinione la quale ritiene che le formule dogmatiche (o qualche categoria
di esse) non possono manifestare la verità
determinatamente, ma solo delle sue approssimazioni cangianti, che sono, in
certa maniera, deformazioni e alterazioni della medesima; e che le stesse
formule, inoltre, manifestano soltanto in modo indefinito la verità, la quale
dev’esser continuamente cercata attraverso quelle approssimazioni. Chi la
pensasse così, non sfuggirebbe al relativismo dogmatico e falsificherebbe il
concetto di infallibilità della Chiesa, relativo
alla verità da insegnare e ritenere in modo determinato.
Un’opinione del genere è in aperto contrasto con le dichiarazioni del
Concilio Vaticano I, il quale, pur consapevole del
progresso della Chiesa nella conoscenza della verità rivelata, ha tuttavia
insegnato: « Ai sacri (…) dogmi dev’esser sempre mantenuto il senso
dichiarato una volta per tutte dalla santa madre Chiesa, e mai è permesso
allontanarsi da quel senso col pretesto ed in nome di un’intelligenza più
progredita ». Esso ha, inoltre, condannato la sentenza secondo la quale
potrebbe accadere « che ai dogmi proposti dalla Chiesa si debba talvolta
dare, in base al progresso della scienza, un senso diverso da quello che la
Chiesa ha inteso ed intende ». Non c’è dubbio, secondo tali testi del
Concilio, che il senso dei dogmi dichiarato dalla Chiesa sia
ben determinato ed irreformabile. Detta
opinione è pure in disaccordo con quanto disse sulla dottrina cristiana il
Sommo Pontefice Giovanni XXIII, durante l’inaugurazione del Concilio Vaticano
II: « Bisogna che questa dottrina certa
ed immutabile, alla quale è dovuto ossequio
fedele, sia esplorata ed esposta nella maniera che l’epoca nostra richiede.
Una cosa è, infatti, il deposito della fede, cioè le
verità contenute nella nostra veneranda dottrina, e altra cosa è il modo
della loro enunciazione, sempre però
nel medesimo senso e significato ». Poiché il
Successore di Pietro parla qui di dottrina cristiana certa ed immutabile, di
deposito della fede da identificare con le verità contenute in tale dottrina,
e di verità che devono esser
conservate nel medesimo senso, è chiaro che egli ammette che il senso dei
dogmi può esser da noi conosciuto, e che questo è esatto ed immutabile. E la novità da lui raccomandata, in
considerazione delle esigenze dei nostri tempi, riguarda soltanto i modi di
ricerca, di esposizione e di enunciazione della
stessa dottrina nel suo senso permanente. In modo analogo, il Sommo
Pontefice Paolo VI, nell’esortazione ai Pastori della Chiesa, ha dichiarato:
« Da noi si richiede oggi un serio
sforzo, perché la dottrina della fede conservi la pienezza del suo contenuto
e del suo significato, pur esprimendola in maniera che le consenta di
raggiungere la mente e il cuore degli uomini, ai quali è diretta ». 6. LA CHIESA ASSOCIATA AL SACERDOZIO DI CRISTO Cristo Signore, Pontefice della nuova ed
eterna alleanza, ha voluto associare e conformare al suo sacerdozio perfetto
il popolo acquistato col proprio sangue (cf Eb 7,20-22 e 26-28; 10,14 e 21). Egli, perciò, ha partecipato,
come dono, alla Chiesa il suo sacerdozio, e ciò mediante il sacerdozio comune
dei fedeli ed il sacerdozio ministeriale o gerarchico, i quali, sebbene
differenti per essenza e non solo per grado, sono tuttavia ordinati l’uno
all’altro nella comunione ecclesiale. Il sacerdozio comune dei fedeli, chiamato
giustamente anche sacerdozio regale (cf 1
Pt 2,9; Ap 1,6; 5,9s.), poiché effettua il
congiungimento dei fedeli, in quanto membri del popolo messianico, col loro
Re celeste, è conferito nel Sacramento del battesimo. In forza di questo
Sacramento, a causa del segno inammissibile chiamato carattere, i fedeli «
incorporati nella Chiesa, sono abilitati al culto della religione cristiana
», ed insieme « essendo rigenerati in figli di Dio, son tenuti a professare
pubblicamente la fede, da lui ricevuta attraverso la Chiesa ». Tutti quelli,
dunque, che son rigenerati nel battesimo, « in virtù del loro regale
sacerdozio, concorrono all’offerta dell’Eucaristia, ed esercitano tale
sacerdozio col ricevere i Sacramenti, con la preghiera e il ringraziamento,
con la testimonianza di una vita santa, con l’abnegazione e la carità operosa
». Oltre a ciò, Cristo, Capo del suo corpo
mistico che è la Chiesa, perché rappresentassero lui
in persona nella Chiesa, costituì come ministri del suo sacerdozio gli
Apostoli e, per loro tramite, i Vescovi loro successori; e questi, a loro
volta, comunicarono legittimamente il sacro ministero ricevuto, sebbene in
grado subordinato, anche ai Presbiteri. Si instaurò
così nella Chiesa la successione apostolica del sacerdozio ministeriale, a
gloria di Dio ed a servizio del suo Popolo e di tutta la famiglia umana, che
a Dio dev’esser diretta. In forza di questo sacerdozio, i Vescovi
e i Presbiteri « sono in certo modo segregati in
seno al Popolo di Dio, non però per esser separati da esso o da qualsiasi uomo,
ma perché siano consacrati totalmente all’opera, per la quale il Signore li
assume », cioè alla funzione di santificare, di insegnare e di governare, il
cui esercizio è precisato in concreto dalla comunione gerarchica. Questa
opera multiforme ha come principio e fondamento l’ininterrotta
predicazione del Vangelo, mentre come culmine e sorgente di tutta la vita
cristiana ha il Sacrificio eucaristico, che i sacerdoti, come rappresentanti
di Cristo Capo in persona, in nome suo ed in nome delle membra del suo corpo
mistico, offrono nello Spirito Santo a Dio Padre; e che è poi integrato nella
sacra Cena, nella quale i fedeli, partecipando all’unico corpo di Cristo,
tutti diventano un corpo solo (cf 1 Cor
10,16s.). La Chiesa ha cercato di indagare sempre
più e meglio sulla natura del sacerdozio ministeriale, che fin dall’età
apostolica risulta costantemente conferito mediante
un rito sacro (cf 1 Tm 4,14; 2 Tm 1,6). Con l’assistenza della
Spirito Santo, essa è così gradatamente arrivata alla chiara persuasione che
Dio ha voluto manifestarle che questo rito conferisce ai sacerdoti non
soltanto un aumento di grazia per compiere santamente le funzioni ecclesiali,
ma imprime anche un sigillo permanente di Cristo, cioè
il carattere, in forza del quale, dotati di appropriata potestà derivata
dalla suprema potestà di cristo, sono abilitati a compiere quelle funzioni.
La permanenza poi di questo carattere, la cui natura è peraltro diversamente
spiegata dai teologi, è stata insegnata dal Concilio di Firenze e confermata
in due decreti del Concilio di Trento. Recentemente essa è stata, altresì, più volte ricordata dal Concilio Vaticano II, e la seconda
Assemblea generale del Sinodo dei Vescovi giustamente ha rilevato che la
permanenza per tutta la vita del carattere sacerdotale appartiene alla
dottrina della fede. Questa stabile permanenza del carattere sacerdotale
dev’essere ammessa dai fedeli, e di essa si deve
tener conto per dare un retto giudizio sulla natura del ministero sacerdotale
e sulle corrispondenti modalità del suo esercizio. Quanto, poi, alla
potestà che è propria del sacerdozio ministeriale, il Concilio Vaticano II,
in accordo con la sacra Tradizione e con numerosi documenti del Magistero, ha
insegnato: « Se chiunque può battezzare i credenti, è tuttavia potestà
esclusiva dei sacerdoti completare l’edificazione del Corpo col Sacrificio
eucaristico »; e ancora: « Il Signore stesso, affinché i fedeli fossero uniti
in un unico corpo, nel quale però “le membra non hanno la medesima funzione”
(Rm 12,4), costituì alcuni di loro
come ministri, perché avessero, in seno alla società dei fedeli, la sacra
potestà dell’Ordine per offrire il Sacrificio e rimettere i peccati ».
Parimenti, la seconda Assemblea generale del Sinodo dei Vescovi ha a buon
diritto affermato che solo il sacerdote, quale rappresentante di Cristo in
persona, può presiedere e compiere il convito sacrificale, nel quale il
Popolo di Dio è associato all’oblazione di Cristo. Senza voler ora toccare le
questioni sui ministri dei singoli Sacramenti, stando alla testimonianza
della sacra Tradizione e del sacro Magistero, è evidente che i fedeli i
quali, senza aver ricevuto l’ordinazione sacerdotale, di proprio arbitrio si
arrogassero la funzione di fare l’Eucaristia, agirebbero,
oltre che in modo gravemente illecito, in modo anche invalido. Ed è evidente che abusi del genere, qualora si siano
introdotti, devono essere stroncati dai Pastori della Chiesa. * *
* La presente Dichiarazione non ha inteso –
né era questo il suo scopo – dimostrare, con apposito
studio circa i fondamenti della nostra fede, che la Rivelazione divina è
stata affidata alla Chiesa, perché da
essa fosse in futuro mantenuta inalterata nel mondo. Ma, insieme con
altre verità attinenti al mistero della Chiesa, è stato richiamato anche
questo dogma che è all’origine stessa della fede cattolica, affinché, nell’attuale turbamento delle
menti, appaia chiaramente quale sia la fede e la
dottrina che i fedeli devono fermamente tenere. La Sacra Congregazione per la Dottrina
della Fede è ben lieta che i teologi si applichino con grande impegno
all’approfondimento del mistero della Chiesa. Essa riconosce pure che il loro
lavoro, non di rado, tocca questioni che solo da
ricerche complementari e da vari tentativi e congetture possono esser
chiarite. Tuttavia, la giusta libertà
dei teologi deve sempre mantenersi limitata dalla parola di Dio, così com’è
stata fedelmente conservata ed esposta nella Chiesa, e com’è insegnata e
spiegata dal vivo Magistero dei Pastori e, in primo luogo, dal Pastore di
tutto il Popolo di Dio. La stessa Sacra Congregazione affida la
presente Dichiarazione alla sollecitudine attenta dei Vescovi e di tutti
quelli che, a qualunque titolo, condividono la responsabilità di
salvaguardare il patrimonio di verità, che da Cristo e dagli Apostoli è stato
consegnato alla Chiesa. E con fiducia la indirizza
anche ai fedeli e, in particolare, a causa dell’importanza del loro incarico
nella Chiesa, ai sacerdoti e ai
teologi, perché tutti siano concordi nella fede e in sincera consonanza con
la Chiesa. Il Sommo
Pontefice per divina Provvidenza Papa Paolo VI, nell’Udienza concessa al
sottoscritto Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, il
giorno 11 del mese di maggio 1973, ha ratificato e
confermato questa Dichiarazione circa la dottrina cattolica sulla Chiesa per
difenderla da alcuni errori d’oggi, e ne ha ordinato la pubblicazione. Dato a Roma, dalla sede
della Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede, il 24 giugno 1973,
nella solennità di San Giovanni Battista. FRANCESCO Card. ŠEPER Prefetto GIROLAMO HAMER O. P.
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