CONGREGAZIONE
PER LA DOTTRINA DELLA FEDE NOTIFICAZIONE sulle opere del P. Jon SOBRINO S.I.: Introduzione 1. A seguito di un primo esame dei volumi, Jesucristo liberador.
Lectura histórico-teológica de Jesús de Nazaret (Jesucristo)
e La fe en Jesucristo. Ensayo desde las víctimas (La fe),
del Rev. Padre Jon Sobrino S.I.,
la Congregazione per la Dottrina della Fede, a causa delle imprecisioni e
degli errori ivi riscontrati, nell’ottobre del 2001 decise di iniziare
su di essi uno studio ulteriore ed approfondito. Considerata l’ampia
diffusione di questi scritti, soprattutto in America Latina, e la loro
utilizzazione all’interno di seminari e di vari istituti di studio, venne deciso di intraprendere l’Esame con procedura
urgente, disciplinato dagli articoli 23-27 del Regolamento per l’esame
delle dottrine della medesima Congregazione. In seguito a detto esame, nel luglio del
2004 fu inviato all’Autore, per mezzo del Rev.
Padre Peter Hans Kolvenbach S.I., Preposito Generale della
Compagnia di Gesù, un Elenco di proposizioni erronee e pericolose
rilevate nei libri di cui sopra. Nel marzo
del 2005, il P. Jon Sobrino trasmise una Respuesta al texto de la
Congregación para la Doctrina de la Fe. Tale Respuesta fu esaminata nel corso della Sessione
Ordinaria del 23 novembre 2005. Venne constatato
che, sebbene l’Autore avesse parzialmente modificato il suo pensiero su
alcuni punti, la Respuesta non risultava
soddisfacente, dal momento che nella sostanza permanevano gli errori che
avevano motivato l’invio dell’Elenco di proposizioni sopra menzionato.
Nonostante l’apprezzabile preoccupazione che
l’Autore manifesta nei suoi scritti per la condizione dei poveri, la
Congregazione per la Dottrina della Fede si vede perciò costretta a
dichiarare che le suddette opere di P. Sobrino
presentano, in alcuni passi, notevoli divergenze con la Fede della Chiesa. Si è quindi deciso di pubblicare la
presente Notificazione, allo scopo di offrire ai fedeli un criterio di
giudizio sicuro, basato sull’autentica dottrina ecclesiale, circa alcune
affermazioni contenute negli scritti dell’Autore. Si fa rilevare che, in
alcuni casi, le proposizioni erronee sono collocate in contesti
in cui si trovano altre espressioni che sembrano contraddirle[1]; ciò non è però sufficiente a giustificarle. La
Congregazione non pretende giudicare le intenzioni soggettive dell’Autore;
ciononostante ritiene suo dovere richiamare l’attenzione su alcune
proposizioni contenute nei suoi scritti che non risultano conformi con la dottrina della Chiesa. Dette proposizioni riguardano: 1) i presupposti metodologici
enunciati dall’Autore, su cui è fondata la sua riflessione teologica; 2) la
divinità di Gesù Cristo; 3) l’Incarnazione del Figlio di Dio; 4) la relazione
fra Gesù Cristo e il Regno di Dio; 5) l’autocoscienza di Gesù Cristo; 6) il
valore salvifico della sua morte. I. Presupposti metodologici. 2. Nel suo
libro Jesucristo liberador, P. Jon Sobrino afferma: “La
cristología latinoamericana […] determina que su lugar, como realidad
sustancial, son los pobres de este mundo, y esta realidad es la que debe
estar presente y transir cualquier lugar categorial donde se lleva a cabo”
(p. 47). E aggiunge: “Los pobres cuestionan dentro de la comunidad la fe
cristológica y le ofrecen su dirección fundamental” (p. 50); la “Iglesia
de los pobres es […] el lugar eclesial de la cristología, por ser una
realidad configurada por los pobres” (p. 51). “El lugar social,
es pues, el más decisivo para la fe, el más decisivo para configurar el modo
de pensar cristológico y el que exige y facilita la ruptura epistemológica”
(p. 52). Sebbene si apprezzi la preoccupazione
per i poveri e per gli oppressi, nelle frasi di cui sopra questa
“Iglesia de los
pobres” risulta di fatto il luogo teologico
fondamentale dell’Autore. Ma il luogo teologico fondamentale può esser
solo la Fede della Chiesa; in essa trova la giusta
collocazione epistemologica qualunque altro luogo teologico. Il luogo ecclesiale della cristologia
non può essere la “Iglesia de los pobres” bensì la Fede
apostolica trasmessa attraverso la Chiesa a tutte le generazioni. Il teologo,
secondo la sua peculiare vocazione ecclesiale, deve tener costantemente
presente che la teologia è scienza della Fede. Altri punti di partenza del
lavoro teologico corrono il rischio dell’arbitrarietà e finiscono per
snaturarne i contenuti[2]. 3. La mancanza della debita attenzione alle fonti -
a prescindere dal fatto che l’Autore affermi di considerarle come “normative”
- è la causa dei problemi presenti nella sua teologia, cui ci si riferirà più
avanti. In particolare, le affermazioni del Nuovo Testamento sulla divinità
di Cristo, sulla sua coscienza filiale e sul valore salvifico della sua morte
– questioni trattate nei paragrafi che seguono - di fatto, non sono sempre
tenute nel dovuto conto. È ugualmente significativo
il modo con cui l’Autore considera i grandi concili della Chiesa antica, che a
suo parere si sarebbero allontanati progressivamente dai contenuti del Nuovo
Testamento. Ad esempio, egli afferma: “Estos textos son útiles
teológicamente, además de normativos, pero son también limitados y aun
peligrosos, como hoy se reconoce sin dificultad” (La fe,
pp. 405-406). Di
fatto, se si deve riconoscere il carattere limitato delle formule dogmatiche,
che non esprimono, e non possono esprimere, tutto il contenuto dei misteri
della Fede e che devono esser interpretate alla luce della Sacra Scrittura e
della Tradizione, non è lecito tuttavia ritenere dette formule “pericolose”,
poiché esse sono interpretazioni autentiche del dato
rivelato. Lo sviluppo dogmatico dei primi secoli,
incluso quello dei grandi concili, è considerato da P. Sobrino come ambiguo e negativo. Egli non nega il
carattere normativo delle formulazioni dogmatiche ma, complessivamente, non
riconosce ad esse un valore al di fuori dell’ambito
culturale in cui sorsero. L’Autore non tiene conto del fatto che il soggetto transtemporale della Fede è la Chiesa credente e
che i pronunciamenti dei primi concili sono stati accettati e vissuti da
tutta la comunità ecclesiale. La Chiesa continua infatti
a professare ancora oggi il Credo proclamato dai Concili di Nicea (325) e di
Costantinopoli (381). I primi quattro concili ecumenici sono accettati dalla
maggior parte delle Chiese e comunità ecclesiali di oriente
ed occidente. Se utilizzarono termini e concetti della cultura del loro tempo non fu certo per conformarsi ad essa: i concili non
significarono infatti una ellenizzazione del
cristianesimo bensì il contrario. Infatti, con la inculturazione
del messaggio cristiano la stessa cultura greca subì una trasformazione dal
di dentro e poté convertirsi in uno strumento per l’espressione e la
difesa della verità biblica. II.
La divinità di Gesù Cristo. 4. Diverse affermazioni dell’Autore tendono a diminuire la
portata dei passi del Nuovo Testamento in cui si afferma che Gesù è Dio: “Jesús está íntimamente ligado a Dios, con lo cual
su realidad habrá que expresarla de alguna forma como realidad que es de Dios (cf. Gv 20,28)” (La fe,
p. 216). In riferimento a Gv 1,1, l’Autore afferma: “Con el texto de
Juan […] de ese logos no se dice todavía, en sentido estricto, que sea Dios
(consustancial al Padre), pero de él se afirma algo que será muy importante
para llegar a esta conclusión, su preexistencia, la cual no connota algo
puramente temporal, sino que dice relación con la creación y relaciona al
logos con la acción específica de la divinidad” (La fe, p. 469).
Per P. Sobrino, nel Nuovo Testamento non si afferma chiaramente la divinità
di Gesù ma si pongono soltanto i suoi presupposti: “En el Nuevo Testamento
[…] hay expresiones que, en germen, llevarán a la confesión de fe en la
divinidad de Jesús” (La fe, pp. 468-469). “En los comienzos no se
habló de Jesús como Dios ni menos de la divinidad de Jesús, lo cual sólo
acaeció tras mucho tiempo de explicación creyente, casi con toda probabilidad
después de la caída de Jerusalén” (La fe, p. 214). Sostenere che in Gv 20,28 si
afferma che Gesù è “de Dios” è un errore
evidente, poiché in tale passo evangelico Gesù viene
chiamato “Signore” e “Dio”. Ugualmente, in Gv 1,1 si
dice che il Logos è Dio. In
molti altri passi del Nuovo Testamento si parla di Gesù
come “Figlio” e “Signore”[3]. La
divinità di Gesù è stata oggetto della Fede ecclesiale fin dagli inizi e
molto prima che nel Concilio di Nicea si proclamasse la sua consustanzialità
con il Padre. Il fatto che non si usi questo termine non significa che non si
affermi la divinità di Gesù in senso stretto,
contrariamente a quanto l’Autore pare insinuare. L’Autore, asserendo che la divinità di
Gesù è stata affermata solo dopo molto tempo di
riflessione credente e che nel Nuovo Testamento essa si troverebbe soltanto “en
germen”, evidentemente non la nega ma nello
stesso tempo non l’afferma con la debita chiarezza, inducendo altresì a
pensare che lo sviluppo dogmatico - che a suo parere possiede delle
caratteristiche ambigue - sia giunto a questa formulazione senza una chiara
continuità con il Nuovo Testamento. La divinità di Gesù è invece chiaramente
attestata nei passi del Nuovo Testamento sopra citati. Le numerose
dichiarazioni conciliari in materia[4] si pongono in
continuità con quanto il Nuovo Testamento afferma esplicitamente e non solo “in germe”. La confessione
della divinità di Gesù Cristo è un punto assolutamente essenziale della Fede
della Chiesa fin dalle origini e attestata già nel Nuovo Testamento. III.
L’Incarnazione del Figlio di Dio. 5. P. Sobrino
scrive: “Desde una perspectiva dogmática debe afirmarse, y con toda
radicalidad, que el Hijo (la segunda persona de la Trinidad) asume toda la
realidad de Jesús, y aunque la fórmula dogmática nunca explica el hecho de
ese ser afectado por lo humano, la tesis es radical. El Hijo experimenta la
humanidad, la vida, el destino y la muerte de Jesús” (Jesucristo,
p. 308). Nel
suddetto brano l’Autore stabilisce una distinzione fra il Figlio e Gesù, che
suggerisce al lettore la presenza di due soggetti in Cristo: il Figlio assume
la realtà di Gesù; il Figlio sperimenta l’umanità, la vita, il destino e la
morte di Gesù. Non risulta con chiarezza che il
Figlio è Gesù e Gesù è il Figlio. Il tenore letterale di queste frasi
riflette la nota teologia dell’homo assumptus, la quale risulta incompatibile con la Fede cattolica, che afferma
invece l’unità della persona
di Gesù Cristo in due nature, divina ed umana, secondo le formulazioni del
Concilio di Efeso[5] e soprattutto di Calcedonia, che
asserisce: “noi insegniamo a confessare un solo e medesimo Figlio: il
Signore nostro Gesù Cristo, perfetto nella sua divinità e perfetto nella sua
umanità, vero Dio e vero uomo, di anima razionale e di corpo, consostanziale
al Padre per la divinità, e consostanziale a noi per l'umanità, simile in
tutto a noi, fuorché nel peccato (cf. Ebr 4,15),
generato dal Padre prima dei secoli secondo la
divinità, e in questi ultimi tempi per noi e per la nostra salvezza da Maria
vergine e genitrice di Dio, secondo l'umanità, uno e medesimo Cristo Signore
unigenito; da riconoscersi in due nature, senza confusione, immutabili,
indivise, inseparabili...”[6]. In ugual modo si
espresse Papa Pio XII nella Lettera enciclica Sempiternus
Rex: “…il concilio di Calcedonia, in
perfetto accordo con quello di Efeso, afferma
chiaramente che entrambe le nature del nostro Redentore si uniscono «in una
sola persona e sussistenza» e vieta di affermare due individui in Cristo, in
modo che accanto al Verbo sia posto un certo «uomo assunto» dotato di piena
autonomia”[7]. 6. Un’altra difficoltà, riscontrata nella
visione cristologica di P. Sobrino, deriva dalla
sua insufficiente comprensione della communicatio
idiomatum. Secondo l’Autore, “la comprensión
adecuada de la communicatio idiomatum” sarebbe la seguente: “lo
humano limitado se predica de Dios, pero lo divino ilimitado no se predica de
Jesús” (La fe, p. 408; cf. p. 500). In realtà, l’unità della persona di
Cristo “in due nature”, affermata dal Concilio di Calcedonia, ha come
conseguenza immediata la cosiddetta communicatio
idiomatum, cioè la
possibilità di riferire le proprietà della divinità all’umanità e viceversa.
In virtù di questa possibilità, già il Concilio di Efeso
definì che Maria era theotókos: “Se
qualcuno non confessa che l'Emmanuele è Dio nel vero senso della parola, e
che perciò la santa Vergine è genitrice di Dio perché ha generato secondo la
carne il Verbo che è da Dio, sia anatema”[8]. “Se qualcuno attribuisce a due persone o a due
sostanze le espressioni dei Vangeli e degli scritti degli apostoli, o dette
dai santi sul Cristo, o da lui di se stesso, ed alcune le attribuisce
all’uomo, considerato distinto dal Verbo di Dio, altre, invece, come
convenienti a Dio, al solo Verbo di Dio Padre, sia anatema”[9]. Come facilmente può dedursi da questi testi
conciliari, la “comunicazione delle proprietà” si applica nei due
sensi: l’umano si predica di Dio e il divino dell’uomo. Già il Nuovo
Testamento afferma che Gesù “è il Signore”[10]
e che tutte le cose sono state create per mezzo di lui[11].
Ad es., nel linguaggio cristiano è possibile dire, e
si dice, che Gesù è Dio e che è creatore ed onnipotente. Il Concilio di Efeso sancì l’uso di chiamare Maria “genitrice di
Dio”. Non è perciò corretto dire che di Gesù non si può predicare “lo
divino ilimitado”. Tale affermazione
dell’Autore si comprenderebbe solo nel contesto di
una cristologia dell’homo assumptus, nella quale non risulta
con chiarezza l’unità della persona di Gesù: è evidente che non si potrebbero
predicare di una persona umana gli attributi divini. Però tale cristologia
non è assolutamente compatibile con l’insegnamento dei Concili di Efeso e di Calcedonia sull’unità della persona di Gesù
Cristo in due nature. La comprensione della communicatio
idiomatum presentata dall’Autore rivela
pertanto una concezione erronea del mistero dell’Incarnazione e dell’unità
della persona di Gesù Cristo. IV.
Gesù Cristo e il Regno di Dio 7. P. Sobrino sviluppa una
peculiare visione del rapporto fra Gesù ed il Regno di Dio. Si tratta di un
punto che riveste uno speciale interesse nelle sue opere. Secondo l’Autore,
la persona di Gesù, come mediatore, non può essere assolutizzata
ma va considerata in relazione al Regno di Dio,
visto come qualcosa di distinto da Gesù stesso: “Esta relacionalidad
histórica la analizaremos
después en detalle, pero digamos ahora que este recordatorio
es importante […] cuando se absolutiza
al mediador Cristo y se ignora su relacionalidad constitutiva hacia la mediación, el reino de Dios”
(Jesucristo, p. 32). “Ante todo, hay que distinguir entre
mediador y mediación de Dios. El reino de Dios, formalmente hablando, no es
otra cosa que la realización de la voluntad de Dios para este mundo, a lo
cual llamamos mediación. A esa mediación […] está asociada una persona (o
grupo) que la anuncia e inicia, y a ello llamamos mediador. En este sentido
puede y debe decirse que, según la fe, ya ha aparecido el mediador
definitivo, último y escatológico del reino de Dios, Jesús […]. Desde esta
perspectiva pueden entenderse también las bellas palabras de Orígenes al
llamar a Cristo la autobasileia de Dios, el reino de Dios en persona,
palabras importantes que describen bien la ultimidad del mediador personal
del reino, pero peligrosas si adecúan a Cristo con la realidad del reino”
(Jesucristo, p. 147). “Mediador y mediación se relacionan,
pues, esencialmente, pero no son lo mismo. Siempre hay un Moisés y una tierra
prometida, un Monseñor Romero y una justicia anhelada. Ambas cosas, juntas,
expresan la totalidad de la voluntad de Dios, pero no son lo mismo” (Jesucristo,
p. 147). D’altra parte, la condizione di mediatore proverrebbe a Gesù
soltanto per il fatto di essere uomo: “La posibilidad de ser mediador no
le viene, pues, a Cristo de una realidad añadida a lo humano sino que le
viene del ejercicio de lo humano” (La fe, p. 253). L’Autore afferma certamente l’esistenza
di una relazione speciale fra Gesù Cristo (mediador)
ed il Regno di Dio (mediación), in quanto Gesù è il mediatore definitivo, ultimo ed escatologico
del Regno. Tuttavia, nei passi citati, Gesù ed il Regno vengono
distinti in modo tale che il vincolo fra di essi risulta privato del suo
contenuto peculiare e della sua singolarità. P. Sobrino
non spiega correttamente il nesso essenziale che esiste - se si vuole
utilizzare il suo stesso linguaggio - fra il “mediatore” e la “mediazione”.
Inoltre, dicendo che, per Cristo, la possibilità di essere
mediatore “le viene del ejercicio de lo humano”, si esclude che la sua condizione di Figlio
di Dio abbia rilevanza per la sua missione mediatrice. Non è sufficiente parlare di una
connessione intima o di una relazione costitutiva fra Gesù ed il Regno
o di una “ultimidad del mediador”, se si rinvia a qualcosa di diverso da lui
stesso. Infatti, in un certo senso, Gesù Cristo ed il Regno si identificano: nella persona di Gesù già il Regno si è
fatto presente. Tale identità è stata rilevata fin dall’epoca patristica[12]. Papa Giovanni Paolo II affermava nella Lettera
enciclica Redemptoris Missio:
“È sull'annunzio di Gesù Cristo, con cui il regno si
identifica, che è incentrata la predicazione della chiesa primitiva”[13]. “Cristo non soltanto ha annunziato il regno, ma
in lui il regno stesso si è fatto presente e si è compiuto”[14]. “Il regno di Dio non è un concetto, una
dottrina, un programma [...] ma
è innanzi tutto una persona che ha il volto e il nome di Gesù di Nazareth,
immagine del Dio invisibile. Se si distacca il regno
da Gesù, non si ha più il regno di Dio da lui rivelato”[15].
D’altra parte, la singolarità e
l’unicità della mediazione di Cristo sono sempre state affermate nella
Chiesa. Egli, grazie alla sua condizione di “unigenito Figlio di Dio”,
è “l’autorivelazione
definitiva di Dio”[16]. Perciò
la sua mediazione è unica, singolare, universale ed insuperabile: “…si può
e si deve dire che Gesù Cristo ha un significato e un valore per il genere
umano e la sua storia, singolare e unico, a lui solo proprio, esclusivo,
universale, assoluto. Gesù è, infatti, il Verbo di Dio fatto uomo per la
salvezza di tutti”[17]. V.
L’autocoscienza di Gesù Cristo. 8. P. Sobrino,
citando L. Boff, afferma che “Jesús fue un extraordinario creyente y tuvo
fe. La fe fue el modo de existir de Jesús”(Jesucristo, p. 203). E, di sua propria
iniziativa, aggiunge che: “Esta fe describe la totalidad de la vida de Jesús” (Jesucristo, p. 206). L’Autore giustifica
la sua posizione adducendo il testo di Ebr 12,2: “En forma
lapidaria la carta [a los Hebreos] dice con una claridad que no tiene
paralelo en el Nuevo Testamento que Jesús se relacionó con el misterio de
Dios en la fe. Jesús es el que ha vivido originariamente y en plenitud la fe
(12,2)” (La fe, p. 256). P. Sobrino prosegue,
dicendo: “Por lo que toca a la fe, Jesús es presentado, en vida, como un
creyente como nosotros, hermano en lo teologal, pues no se le ahorró el tener
que pasar por ella. Pero es presentado también como hermano mayor, porque
vivió la fe originariamente y en plenitud (12,2). Y es el modelo, aquel en
quien debemos tener los ojos fijos para vivir nuestra propia fe”(La
fe, p. 258). Nei passi appena citati, la relazione
filiale di Gesù con il Padre, nella sua singolarità irripetibile,
non appare con la dovuta chiarezza; anzi, le suddette affermazioni conducono piuttosto
ad escluderla. Considerando l’insieme del Nuovo Testamento, non si può
sostenere che Gesù sia “un creyente como nosotros”. Nel vangelo
di Giovanni si parla della “visione” del Padre da parte di Gesù: “solo colui che viene da Dio ha visto il Padre”[18]. Ugualmente, l’intimità unica e singolare di Gesù
con il Padre è attestata nei vangeli sinottici[19]. La coscienza filiale e messianica di
Gesù è la conseguenza diretta della sua ontologia di Figlio di Dio fatto uomo. Se Gesù fosse un credente come noi,
sebbene in modo esemplare, non potrebbe esser
l’autentico rivelatore, colui che ci mostra il volto del Padre. Sono evidenti
le connessioni di questo punto con quanto è stato detto prima nel n. IV,
sulla relazione di Gesù con il Regno, e con quanto si dirà più avanti nel n.
VI, sul valore salvifico attribuito da Gesù alla propria morte. Nella
riflessione dell’Autore viene meno di fatto il
carattere unico della mediazione e della rivelazione di Gesù, che in tal modo
è ridotto alla condizione di rivelatore attribuibile ai profeti o ai mistici.
Gesù, il Figlio di Dio fatto carne, gode di una conoscenza intima ed immediata del Padre, di
una “visione” che certamente va al di là della fede. L’unione ipostatica e la
sua missione di rivelatore e redentore esigono la visione del Padre e la
conoscenza del suo piano di salvezza. È ciò che indicano
i testi evangelici già citati. Tale dottrina è stata espressa in
diversi testi magisteriali recenti: “questa amantissima
conoscenza, con la quale il divin Redentore ci ha seguiti sin dal primo
istante della sua Incarnazione, supera ogni capacità della mente umana,
giacché, per quella visione beatifica di cui godeva sin dal momento in cui fu
ricevuto nel seno della Madre divina...”[20]. Con una terminologia leggermente diversa,
anche Papa Giovanni Paolo II insiste sulla visione del Padre: “I suoi [di
Gesù] occhi restano fissi sul Padre. Proprio per la conoscenza e l'esperienza
che solo lui ha di Dio, anche in questo momento di oscurità
egli vede limpidamente la gravità del peccato e soffre per esso. Solo lui,
che vede il Padre e ne gioisce pienamente, misura fino in fondo che cosa
significhi resistere col peccato al suo amore”[21]. Anche il Catechismo della Chiesa Cattolica
parla della conoscenza “immediata” che Gesù ha del Padre: “È,
innanzi tutto, il caso della conoscenza intima e immediata che il Figlio di
Dio fatto uomo ha del Padre suo”[22]. “La
conoscenza umana di Cristo, per la sua unione alla Sapienza divina nella
Persona del Verbo incarnato, fruiva in pienezza della scienza dei disegni
eterni che egli era venuto a rivelare”[23]. La relazione di Gesù con Dio non si
esprime correttamente dicendo che egli era un credente come noi. Al
contrario, sono proprio l’intimità e la conoscenza diretta ed immediata che
egli ha del Padre a permettergli di rivelare agli uomini il mistero
dell’amore divino. E solo così egli può introdurci
in tale amore. VI.
Il valore salvifico della morte di Gesù. 9. Alcune affermazioni di P. Sobrino
inducono a pensare che, a parere dell’Autore, Gesù non avrebbe
attribuito alla propria morte un valore salvifico: “Digamos desde el principio que el Jesús histórico
no interpretó su muerte
de manera salvífica, según los modelos
soteriólogicos que, después, elaboró el Nuevo Testamento: sacrificio
expiatorio, satisfacción
vicaria […]. En otras palabras, no hay datos para pensar que Jesús
otorgara un sentido absoluto trascendente a su propia muerte, como hizo
después el Nuevo Testamento” (Jesucristo, p. 261). “En
los textos evangélicos no se puede encontrar inequívocamente el significado
que Jesús otorgó a su propia muerte” (ibidem). “…puede decirse
que Jesús va a la muerte con confianza y la ve como último acto de servicio,
más bien a la manera de ejemplo eficaz y motivante para otros que a la manera
de mecanismo de salvación para otros. Ser fiel hasta el final, eso es ser
humano” (Jesucristo, p. 263). In un primo momento, l’affermazione
dell’Autore sembra limitata, nel senso che Gesù parrebbe non aver attribuito
alla sua morte un valore salvifico secondo le categorie utilizzate nel Nuovo
Testamento. Tuttavia, in seguito, egli afferma che “no hay
datos para pensar” che Gesù abbia attribuito un
senso trascendente ed assoluto alla propria morte. P. Sobrino dice soltanto che Gesù va incontro alla morte con
confidenza e le attribuisce valore di esempio
motivante per gli altri. In tal modo, i numerosi passi del Nuovo Testamento
che parlano del valore salvifico della morte di Cristo[24]
risultano privati di ogni legame con la coscienza
che Cristo ha avuto di sé durante la sua vita soggetta alla morte. L’Autore
non prende in debita considerazione i passi evangelici in cui Gesù attribuisce
alla sua morte un significato salvifico; in particolare Mc 10,45[25]: “il figlio
dell’uomo non è venuto per esser servito, ma per servire e dare la propria
vita in riscatto per molti”; e le parole di istituzione dell’eucarestia: “Questo è il mio sangue, il sangue
dell’alleanza versato per molti”[26]. Qui appare
di nuovo la difficoltà, di cui sopra si è fatto menzione, circa l’uso che P. Sobrino fa del Nuovo Testamento. I dati neotestamentari
cedono il passo ad una ipotetica ricostruzione
storica, che risulta erronea. 10. Tuttavia il problema non si riduce alla
coscienza con cui Gesù ha affrontato la sua morte ed al significato che le
avrebbe conferito.
P. Sobrino espone anche il suo punto di vista circa
il significato soteriologico che si dovrebbe
attribuire alla morte di Cristo: “Lo salvífico consiste en que ha aparecido sobre la tierra lo que Dios quiere que
sea el ser humano […]. El Jesús
fiel hasta la cruz es salvación, entonces, al menos en este sentido: es
revelación del homo verus, es decir, de un ser humano en el que resultaría
que se cumplen tácticamente las características de una verdadera naturaleza
humana […]. El hecho mismo de que se haya revelado lo humano verdadero contra
toda expectativa, es ya buena noticia, y por ello, es ya en sí mismo
salvación […]. Según esto, la cruz de Jesús como culminación de toda su vida
puede ser comprendida salvíficamente. Esta eficacia salvífica se muestra más
bien a la manera de la causa ejemplar que de la causa eficiente. Pero no
quita esto que no sea eficaz […]. No se trata pues de causalidad eficiente,
sino de causalidad ejemplar” (Jesucristo, pp. 293-294). Ovviamente, si deve riconoscere tutto il
valore all’efficacia dell’esempio di Cristo, che il Nuovo Testamento menziona
esplicitamente[27]: è questa una dimensione della
soteriologia che non si può dimenticare. Tuttavia non si può ridurre
l’efficacia della morte di Gesù all’esempio o, secondo le medesime parole
dell’Autore, alla rivelazione dell’«homo verus»
fedele a Dio fino alla morte in croce. Nel testo
sopra citato, P. Sobrino usa espressioni come “al
menos” e “más
bien”, che sembrano lasciar aperta la porta ad
altre considerazioni. Ma alla fine questa porta si chiude con una esplicita negazione: egli afferma che
non si tratta di causalità efficiente bensì di “causalità esemplare”. La
redenzione sembra così ridursi all’apparizione dell’homo verus, che si manifesta nella fedeltà fino alla morte. La morte di Cristo sarebbe in tal modo exemplum e non sacramentum
(dono). La redenzione si riduce al moralismo. Affiorano qui di nuovo le
difficoltà cristologiche già notate in relazione
con il mistero dell’Incarnazione e con il Regno. Entra qui in gioco solo
l’umanità di Gesù e non il Figlio di Dio fatto uomo per noi e per la nostra
salvezza. Le affermazioni del Nuovo Testamento, della Tradizione e del
Magistero ecclesiale sulla efficacia della
redenzione e della salvezza operate da Cristo non possono ridursi al buon
esempio da lui dato. Il mistero dell’Incarnazione, morte e risurrezione di
Gesù Cristo, il Figlio di Dio fatto uomo, è la fonte unica e inesauribile
della redenzione dell’umanità, che si rende efficace nella Chiesa mediante i
sacramenti. Il Concilio di Trento, nel Decreto
sulla giustificazione, afferma: “il
Padre celeste, «padre delle misericordie e Dio di ogni consolazione» (2Cor
1,3), quando giunse la beata «pienezza dei tempi» (Ef 1,10; Gal 4,4), mandò
agli uomini Gesù Cristo, suo figlio [...] affinché
riscattasse i Giudei, «che erano sotto la legge» (Gal 4,5), e «i pagani che
non cercavano la giustizia, raggiungessero la giustizia» (Rm 9,30); e tutti
«ricevessero l’adozione di figli» (Gal 4,5). Questo Dio «ha prestabilito a
servire come strumento di espiazione per mezzo della
fede nel suo sangue» (Rm 3,25), «per i nostri peccati; non solo per i nostri,
ma anche per quelli di tutto il mondo» (1Gv 2,2)”[28]. Nel medesimo decreto si afferma che la
causa meritoria della giustificazione è Gesù, Figlio unigenito di Dio, “il
quale, «quando eravamo nemici» (Rm 5,10), «per il grande amore con cui ci ha amati» (Ef 2,4) ci ha meritato la giustificazione con la
sua santissima passione sul legno della croce e ha soddisfatto per noi Dio
Padre”[29]. Il Concilio Vaticano II insegna: “Il
Figlio di Dio, unendo a sé la natura umana e vincendo la morte con la sua
morte e resurrezione, ha redento l'uomo e l'ha trasformato in una nuova
creatura (cf. Gal 6,15; 2 Cor 5,17). Comunicando infatti
il suo Spirito, costituisce misticamente come suo corpo i suoi fratelli, che
raccoglie da tutte le genti. In quel corpo la vita di Cristo si diffonde nei
credenti che, attraverso i sacramenti, si uniscono in modo arcano e reale a
lui sofferente e glorioso”[30]. Il Catechismo della Chiesa Cattolica afferma
a sua volta: “Questo disegno divino di salvezza attraverso la messa a
morte del «Servo Giusto» era stato anticipatamente annunziato nelle Scritture
come un mistero di redenzione universale, cioè di
riscatto che libera gli uomini dalla schiavitù del peccato. San Paolo
professa, in una confessione di fede che egli dice di avere «ricevuto», che
«Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture» (1Cor
15,3). La morte redentrice di Gesù compie in particolare la profezia del
Servo sofferente”[31]. Conclusione 11. La teologia nasce dall’obbedienza all’impulso della
verità che tende a comunicarsi e dell’amore che desidera conoscere sempre
meglio colui che ama, cioè Dio stesso, la cui bontà
riconosciamo grazie alla Fede[32]. Perciò
la riflessione teologica non può aver altra origine se non la Fede della
Chiesa. Solo a partire da questa Fede il teologo può acquisire, in comunione
con il Magistero, un’intelligenza sempre più profonda della Parola di Dio
contenuta nella Scrittura e trasmessa dalla Tradizione viva
della Chiesa[33]. La verità rivelata da Dio stesso in Gesù
Cristo, e trasmessa dalla Chiesa, costituisce dunque il principio ultimo e
normativo della teologia[34], e nessun’altra
istanza può superarla. Riferendosi a questa sorgente
perenne, la teologia è fonte di autentica novità e
di luce per gli uomini di buona volontà. Perciò la ricerca teologica offre
frutti tanto più abbondanti e maturi, per il bene di
tutto il popolo di Dio e di tutta l’umanità, quanto più si inserisce nella
viva corrente che, grazie all’azione dello Spirito Santo, procede dagli
Apostoli e si è arricchita mediante la riflessione credente delle generazioni
che ci hanno preceduto. È lo Spirito Santo che introduce la Chiesa alla
pienezza della verità[35] e solo nella docilità a
questo “dono dall’alto” la teologia è realmente ecclesiale ed al
servizio della verità. Lo scopo della presente Notificazione
è quello di richiamare all’attenzione di tutti i fedeli la fecondità di una
riflessione teologica che non teme di svilupparsi nel flusso vitale della
Tradizione ecclesiale. Il Sommo Pontefice Benedetto XVI, nel
corso dell’Udienza concessa al sottoscritto Cardinal Prefetto il 13 ottobre
2006, ha approvato la presente Notificazione, decisa nella Sessione Ordinaria di questa
Congregazione, e ne ha ordinato la pubblicazione. Dato in Roma, nella
sede della Congregazione per la Dottrina della Fede, il 26 novembre 2006,
Festa Liturgica di N.S. Gesù Cristo Re dell’Universo. William
Cardinale Levada Angelo
Amato S.D.B. [1] Cf. ad es. infra
al n. 6. [2] Cf. Concilio Vaticano II, Decr.
Optatam totius,
16; Giovanni Paolo II, Lett. Enc. Fides et Ratio, 65: AAS 91 (1999),
5-88. [3] Cf. 1Tess 1,10; Fil 2,5-11; 1Cor
12,3; Rm 1,3-4; 10,9; Col 2,9, etc.. [4] Cf.
i Concili di Nicea, DH 125; Costantinopoli, DH 150; Efeso, DH 250-263;
Calcedonia, DH 301-302. [5] Cf. DH 252-263. [6] Concilio
di Calcedonia, Symbolum Chalcedonense, DH 301. [7] Pio XII, Lett. Enc. Sempiternus
Rex: AAS 43 (1951), 638; DH 3905. [8] Concilio di Efeso, Anathematismi Cyrilli
Alex., DH 252. [9] Ibidem, DH 255. [10] 1Cor 12,3; Fil 2,11. [11] Cf. 1Cor 8,6. [12] Cf. Origene, In Mt. Hom.,
14,7; Tertulliano, Adv. Marcionem, IV 8;
Ilario di Poitiers, Comm. in Mt.
12,17. [13] Giovanni
Paolo II, Lett. Enc. Redemptoris Missio, 16: AAS 83 (1991), 249-340. [14] Ibidem, 18. [15] Ibidem. [16] Ibidem, 5. [17] Congregazione per la Dottrina della Fede, Dich. Dominus
Iesus, 15: AAS 92 (2000), 742-765. [18] Gv 6,46; cf. anche Gv 1,18 [19] Cf. Mt 11,25-27; Lc 10,21-22. [20] Pio XII, Lett. Enc. Mystici
Corporis: AAS 35 (1943) 230; DH 3812. [21] Giovanni
Paolo II, Lett. Apost. Novo Millennio Ineunte, 26: AAS 93 (2001), 266-309. [22] Catechismo della Chiesa Cattolica, 473. [23] Catechismo della Chiesa Cattolica, 474. [24]Cf. ad es. Rm
3,25; 2Cor 5,21; 1Gv 2,2, etc.. [25] Cf. Mt 20,28. [26] Mc 14,24; cf. Mt 26,28; Lc
22,20. [27] Cf. Gv 13,15; 1Pt
2,21. [28] Concilio
di Trento, Decr. De justificatione,
DH 1522. [29] Ibidem, DH 1529; cf. DH 1560. [30] Concilio
Vaticano II, Cost. Dogm. Lumen Gentium, 7. [31] Catechismo della Chiesa Cattolica, 601. [32] Congregazione per la Dottrina della Fede, Istr. Donum veritatis,
7: AAS 82 (1990), 1550-1570. [33] Cf. ibidem.,
6. [34] Cf. ibidem.,
10. [35] Cf. Gv 16,13. |