PAPA
PAOLO VI PATERNA CUM BENEVOLENTIA ESORTAZIONE APOSTOLICA
Ci rivolgiamo con affetto, con fiducia e con
speranza a tutti voi, confratelli nell’episcopato, membri amatissimi del
clero, delle famiglie religiose e del laicato cattolico, all’inizio ormai
della celebrazione dell’anno santo a Roma, presso le basiliche degli
apostoli, dopo che, in pietà e in concordia di sentimenti e di propositi, voi
avete già celebrato il giubileo nel cuore delle singole chiese locali. È un momento di grande importanza per tutto il mondo, che guarda
alla chiesa; ma lo è principalmente per i figli della chiesa stessa, i quali
sono consapevoli della ricchezza del suo mistero di
santità e di grazia, che il recente concilio ha opportunamente lumeggiato. E
perciò ad essi ci rivolgiamo per un caldo invito
alla carità, alla unione reciproca, nello spirito della riconciliazione
proprio dell’anno santo, nel vincolo dell’unica carità di Cristo. Infatti, fin dal momento in cui noi, il 9 maggio 1973,
manifestammo la nostra deliberazione di celebrare l’anno santo
nel 1975, dichiarammo anche la finalità primaria di questa celebrazione
spirituale e penitenziale: la riconciliazione che, fondata sulla conversione
a Dio e sul rinnovamento interiore dell’uomo, risanasse le rotture e i
disordini, di cui soffre oggi l’umanità e la stessa comunità ecclesiale (1). Iniziatasi, poi, per nostra decisione, la celebrazione giubilare
nelle chiese particolari fin dalla pentecoste del 1973, noi non abbiamo
tralasciato alcuna occasione per accompagnarne lo
svolgimento con i nostri interventi dottrinali e pastorali e con pressanti
richiami a detta finalità, ritenendola in perfetta coerenza con lo spirito
più autentico del vangelo e con le linee di rinnovamento tracciate dal
concilio Vaticano II a tutta la chiesa. Questa, istituita da Cristo come
permanente attestazione della riconciliazione da lui compiuta in adempimento
della volontà del Padre (2), ha il compito di
"rendere presenti e quasi visibili Dio Padre e
il Figlio suo incarnato, rinnovando se stessa e purificandosi senza posa
sotto la guida dello Spirito Santo" (3). È parso,
perciò, a noi necessario, perché a quel compito sia data sempre migliore
soddisfazione, accentuare l’urgenza che tutti nella chiesa promuovano la
"unità dello Spirito per mezzo del vincolo della
pace" (Ef 4.3). Nell’imminenza, quindi, della solennità del natale del Signore -
data da noi stabilita per l’apertura del giubileo universale a Roma - (4), rivolgiamo questa nostra esortazione ai pastori e ai
fedeli della chiesa, affinché tutti si facciano attori e promotori di
riconciliazione con Dio e con i fratelli, e il prossimo natale dell’anno santo sia davvero, per il mondo, il " natale di
pace" (5) come lo fu quello del Salvatore. I. LA CHIESA, MONDO RICONCILIATO E
RICONCILIANTE La chiesa ha avuto coscienza, fin dalle origini, della trasformazione
attuata dall’opera redentrice di Cristo, e ne ha dato il lietissimo annuncio:
che, per essa, il mondo è divenuto una realtà
radicalmente nuova (cf. 2 Cor 5,17), nella quale gli uomini hanno
ritrovato Dio e la speranza (cf. Ef 2,12) e, fin d’ora, sono resi
partecipi della gloria di Dio "per mezzo del signore nostro Gesù Cristo,
dal quale ora abbiamo ottenuto la riconciliazione" (Rm 5,11).
Tale novità è dovuta esclusivamente all’iniziativa
misericordiosa di Dio (cf. 2 Cor 5,18-20; Col 1,20-22), essa
viene incontro all’uomo che, allontanatosi da lui per sua
propria colpa, non poteva più ritrovare la pace col suo Creatore. Quella iniziativa di Dio, poi, si è
attualizzata mediante un intervento direttamente divino. Egli, infatti, non
ci ha semplicemente perdonati, né si è servito di un semplice uomo
intermediario tra noi e lui; ma ha costituito il suo
"unigenito Figlio come intercessore di pace" (6):
"colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in
nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di
Dio " (2 Cor 5,21). In realtà Cristo, morendo per noi, ha
cancellato "il documento scritto del nostro debito, le cui condizioni ci erano sfavorevoli. Egli lo ha tolto di mezzo
inchiodandolo alla croce" (Col 2,14); e, per mezzo della croce ci
ha riconciliati con Dio, "distruggendo in se
stesso l’inimicizia" (Ef 2,16). La riconciliazione, attuata da
Dio in Cristo crocifisso, si iscrive nella storia
del mondo, che annovera ormai tra le sue componenti irreversibili l’evento di
Dio fattosi uomo e morto per salvarlo. Ma essa trova permanente espressione
storica nel corpo di Cristo, che è la chiesa, nella quale il Figlio di Dio
convoca "i suoi fratelli da tutte le genti" (7),
e, in quanto suo capo (cf. Col 1,18), ne è il principio di autorità e di azione che la
costituisce sulla terra quale "mondo riconciliato" (8). Poiché la chiesa è il corpo di Cristo e Cristo
è "il salvatore del suo corpo" (Ef 5,23), tutti, per essere
membri degni di questo corpo, devono, in fedeltà all’impegno cristiano,
contribuire a mantenerlo nella sua natura originaria di comunità di
riconciliati, derivante da Cristo nostra pace (cf. Ef 2,14) che
"ci rende rappacificati" (9). La
riconciliazione, infatti, una volta ricevuta, è, come la grazia e come la
vita, un impulso e una corrente che trasforma i suoi beneficiari in operatori
e trasmettitori della medesima. Per ogni cristiano, questa è la credenziale
della sua autenticità nella chiesa e nel mondo: "Inizia la pace da te,
affinché, quando tu stesso sarai pacifico, possa portare la pace agli
altri" (10). Il dovere della pacificazione attinge
personalmente tutti e singoli i fedeli; e, senza il suo adempimento, rimane
inefficace perfino il sacrificio cultuale che intendessero fare (cf. Mt
5,23). La riconciliazione reciproca partecipa, infatti,
dello stesso valore del sacrificio stesso, e con questo costituisce
insieme un’unica offerta a Dio gradita (11). Affinché, poi, tale dovere sia effettivamente adempiuto, e
la riconciliazione, che si opera nell’intimo del cuore, abbia anche carattere
pubblico come la morte di Cristo che la procura, il Signore, ha conferito
agli apostoli e ai pastori della chiesa, loro successori, il "ministero
della riconciliazione" (2 Cor 5,18). Essi, perciò,
"assumendo quasi la persona di Cristo" (12),
sono stabilmente deputati a "edificare il proprio gregge nella verità e
nella santità" (13). La chiesa, dunque, perché "mondo riconciliato", è
anche realtà nativamente e permanentemente riconciliante; e, in quanto tale, essa è presenza e azione di Dio "che
riconcilia a sé il mondo in Cristo" (2 Cor 5,19), le quali si
esprimono primariamente nel battesimo, nel perdono dei peccati e nella
celebrazione eucaristica, attualizzazione del sacrificio redentore di Cristo
e segno efficace dell’unità del popolo di Dio (14). II. LA CHIESA, SACRAMENTO DI UNITÀ La riconciliazione, nel suo duplice aspetto di recuperata pace
tra Dio e gli uomini e degli uomini tra loro è il primo frutto della
redenzione; ed ha, come questa, dimensioni universali tanto in estensione
quanto in intensità. In essa, quindi, è coinvolta
tutta la creazione "fino ai tempi della restaurazione di tutte le
cose" (At 3,21), quando tutte le creature si incontreranno di
nuovo con Cristo, il primogenito dei morti risuscitati (cf. Col 1,18).
E poiché detta riconciliazione trova privilegiata espressione e più densa
concentrazione nella chiesa, questa è "come un sacramento o segno e
strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere
umano" (15); il luogo, cioè,
di irraggiamento di unione degli uomini con Dio e di unità tra loro, che,
attraverso progressiva affermazione nel tempo, troverà compimento nella
consumazione dei tempi. Per poter esprimere pienamente questa
sua sacramentalità, alla quale è legata la sua
stessa ragion d’essere, bisogna che la chiesa, come si richiede per ogni
sacramento, sia segno significante; che realizzi
e verifichi, cioè, quella concordia e convergenza di dottrina, di vita
e di culto, che caratterizzarono i suoi primi giorni (cf. At 2,42), e
che rimangono per sempre suo elemento essenziale (cf. Ef 4,4-6; Cor
1 16). Questa concordia - al contrario di ogni
divisione che attentasse alla compattezza della sua compagine - non può che
aumentare la forza della sua testimonianza, svela le ragioni della sua
esistenza, e illumina maggiormente la sua credibilità. Occorre, perciò, che tutti i fedeli, per cooperare ai disegni di
Dio nel mondo, perseverino nella fedeltà
allo Spirito santo, il quale unifica la chiesa "nella comunione e
nel ministero" e "con la forza del vangelo fa ringiovanire la
chiesa, e la rinnova continuamente e la conduce alla perfetta unione col suo
sposo" (16). Questa fedeltà non potrà non avere felici ripercussioni
ecumeniche sulla ricerca dell’unità visibile di tutti i cristiani, nel modo da Cristo stabilito, in una sola e
medesima chiesa; la quale sarà così più efficace fermento di coesione
fraterna nella comunità delle genti. III. OSCURAMENTI DELLA SACRAMENTALITÀ
DELLA CHIESA Nondimeno, "benché la chiesa per la virtù dello Spirito santo sia rimasta sempre sposa fedele del suo Signore, e
non abbia mai cessato di essere segno di salvezza nel mondo, tuttavia non
ignora affatto che tra i suoi membri, sia chierici che laici, nella lunga
serie dei secoli passati, non sono mancati di quelli che non furono fedeli
allo Spirito di Dio" (17). In realtà "in questa
chiesa di Dio una ed unita, sono sorte fin dai primissimi tempi alcune
scissioni, condannate con gravi parole dall’apostolo" (18).
Quando, poi, avvennero le note fratture non sapute arginare, la chiesa superò
la situazione di interiore dissenso riaffermando
chiaramente, come condizione insostituibile di comunione, quei principi che
consentivano di mantenere intatta la sua unità costitutiva, e permettevano di
manifestarla "nella confessione di una sola fede, nella comune
celebrazione del culto divino e nella fraterna concordia della famiglia di
Dio" (19). Ma appaiono egualmente pericolosi, tali
da richiedere questa chiarificazione e questo invito
all’unità, i fermenti di infedeltà allo Spirito santo che qua e là si trovano
nella chiesa ai nostri giorni, e tentano purtroppo di minarla dall’interno. I
promotori e le vittime di tale processo, in realtà poco numerosi in paragone
dell’immensa maggioranza dei fedeli, pretendono di restare nella chiesa con
gli stessi diritti e le stesse possibilità di espressione
e di azione degli altri per attentare all’unità ecclesiale; e non volendo
riconoscere nella chiesa un’unica realtà risultante da un duplice elemento
umano e divino, analoga al mistero del Verbo incarnato, che la costituisce
"sulla terra comunità di fede, di speranza e di carità quale organismo
visibile", mediante la quale Cristo "diffonde su tutti la verità e
la grazia" (20), essi si oppongono alla gerarchia,
quasi che ogni atto di opposizione sia un momento costitutivo della verità
sulla chiesa da far riscoprire quale Cristo l’avrebbe istituita; mettono in
causa il dovere dell’obbedienza all’autorità voluta dal Redentore; mettono in
stato d’accusa i pastori della chiesa non tanto per quel che fanno o come lo
fanno, ma semplicemente perché, come affermano, sarebbero i custodi di un
sistema o apparato ecclesiastico concorrente con l’istituzione di Cristo; in
tal modo essi provocano sconcerto nella intera comunità, introducendo in essa
il frutto di teorie dialettiche estranee allo Spirito di Cristo. Utilizzando
le parole del vangelo, essi ne alterano il
significato. Noi osserviamo con pena questo stato di cose, anche se, come
abbiamo detto, è ben piccolo in confronto con la gran massa dei cristiani
fedeli; ma non possiamo non insorgere con lo stesso vigore di s. Paolo contro
questa mancanza di lealtà e di giustizia. Noi facciamo appello a tutti i
cristiani di buona volontà perché non si lascino impressionare o disorientare
dalle indebite pressioni di fratelli purtroppo sviati, e che pure sono sempre
presenti alla nostra preghiera e vicini al nostro
cuore. Quanto a noi, riaffermiamo che l’unica chiesa
di Cristo, "in questo mondo costituita e organizzata come società,
sussiste nella chiesa cattolica, governata dal successore di Pietro e dai
vescovi in comunione con lui,
ancorché al di fuori del suo organismo si trovino parecchi elementi di
santificazione e di verità" (21), riaffermiamo pure
che questi pastori della chiesa, che presiedono al popolo di Dio in nome suo,
con l’umiltà dei servi, ma anche con la franchezza degli apostoli (cf. At
4,31) ai quali succedono, hanno il diritto e il dovere di proclamare:
"Fino a quando... sediamo in questa sede, fino a quando presiediamo,
abbiamo autorità e forza, anche se ne siamo indegni" (22). IV.
SETTORI DI OSCURAMENTO DELLA SACRAMENTALITÀ DELLA
CHIESA Il processo che abbiamo descritto prende
la forma di un dissenso dottrinale, che si vuol patrocinare dal pluralismo
teologico ed è spinto, non di rado, fino al relativismo dogmatico, riduttore,
in diverse maniere, dell’integrità della fede. E
anche quando non è spinto fino al relativismo dogmatico, detto pluralismo
viene a volte considerato legittimo luogo teologico, tale da consentire prese
di posizione contro il magistero autentico dello stesso romano pontefice e della
gerarchia episcopale, unici interpreti
autorevoli della divina rivelazione contenuta nella s. tradizione e nella
S. Scrittura (23). Noi riconosciamo al pluralismo di ricerca e di pensiero che
variamente esplora ed espone il dogma, ma senza eliminare l’identico significato
obiettivo, legittimo diritto di cittadinanza nella chiesa, come
naturale componente della sua cattolicità, nonché
segno di ricchezza culturale e di impegno personale di quanti ad essa
appartengono. Riconosciamo anche i valori inestimabili da esso
immessi nel campo della spiritualità cristiana, delle istituzioni ecclesiali
e religiose, come pure nel campo delle espressioni liturgiche e norme
disciplinari: valori confluenti in quella "varietà che agisce
insieme" la quale "dimostra con maggiore evidenza la cattolicità
della chiesa indivisa" (24). Ammettiamo, anzi, che un equilibrato pluralismo teologico trova
fondamento nello stesso mistero di Cristo, le cui imperscrutabili ricchezze
(cf. Ef 3,8) trascendono le capacità espressive di tutte le epoche e
di tutte le culture. La dottrina della fede, quindi, che da quel mistero
necessariamente deriva - poiché, in ordine alla
salvezza, "non c’è altro mistero di Dio, se non il Cristo" (25) - reclama esplorazioni sempre nuove. In realtà le
prospettive della parola di Dio sono tante e tante sono le prospettive dei
fedeli che le esplorano (26) che la convergenza nella
stessa fede non è mai immune da peculiarità personali nell’adesione di
ciascuno. Tuttavia le accentuazioni diverse nella comprensione della stessa
fede non ne pregiudicano i contenuti essenziali, perché esse sono unificate nella comune
adesione al magistero della chiesa; il quale, mentre è, come norma prossima, determinante della fede di tutti, tutti anche garantisce
dal giudizio soggettivo di ogni differenziata interpretazione della medesima. Ma che dire di quel pluralismo che
considera la fede e la sua enunciazione non come eredità comunitaria, quindi
ecclesiale, ma come un ritrovato individuale della libera critica e del
libero esame della parola di Dio? Infatti, senza la
mediazione del magistero della chiesa, al quale gli apostoli affidarono il
loro stesso magistero (27), e che, perciò, insegna
"soltanto ciò che è stato trasmesso" (28),
rimane compromesso il sicuro congiungimento con Cristo tramite gli apostoli,
che sono i "trasmettitori di ciò che essi stessi avevano ricevuto" (29). E perciò, una volta compromessa la perseveranza nella
dottrina trasmessa dagli apostoli, avviene che, forse volendo eludere le
difficoltà del mistero, si cercano formule di illusoria
comprensibilità che ne dissolvono il contenuto reale; e si costruiscono,
così, dottrine non aderenti all’obiettività della fede o addirittura ad essa
contrarie e, per di più, cristallizzate in coesistenza di concezioni opposte
anche tra loro. Non ci si deve, inoltre, nascondere che
ogni cedimento nella identità della fede importa
anche decadimento nello scambievole amore. Quelli, infatti,
che han perduto la gioia che dalla fede deriva (cf. Fil
1,25), sono spinti a mendicare gloria gli uni dagli altri e a non
cercare quella che viene solo da Dio (cf. Gv 5,44), con detrimento
della comunione fraterna. Al senso della chiesa, che a tutti fa riconoscere
la stessa dignità e libertà dei figli di Dio (30), non si può sostituire lo spirito di parte che porta a
scelte discriminanti, privando, in tal modo, la carità anche nel suo naturale
supporto, che è la giustizia. Sarebbe un intento vano quello di trasformare
in meglio la comunione ecclesiale secondo il tipo condiviso a livello di gruppo. Non dobbiamo, invece, tutti perfezionarci attraverso il vangelo?
E dove, questo, manifesta interamente operante la
sua virtù divinamente congenita, se non nella chiesa, con l’apporto di tutti
indistintamente i credenti? Infine, tale spirito di parte si
riflette negativamente anche nella necessaria convergenza di culto e di
preghiera, e si traduce in un isolamento dettato da spirito di presunzione,
non certo evangelico, che preclude la
giustificazione davanti a Dio (cf. Lc 18,10-14). Noi, per quanto ci è
possibile, vogliamo comprendere la radice di questa situazione, e la
paragoniamo all’analoga situazione in cui vive l’odierna società civile,
divisa in gruppi l’un l’altro opposti. Purtroppo, anche la chiesa sembra subire un po’ il contraccolpo
di una tale condizione: eppure essa non deve assimilare ciò che è piuttosto
uno stato patologico. La chiesa deve conservare la sua originalità di
famiglia unificata nella diversità dei suoi membri; anzi, essa dev’essere il
lievito che aiuta la società a reagire, come si diceva dei primi cristiani:
"Vedete quanto si amano!" (31). È con questo
quadro della prima comunità davanti agli occhi - quadro non certo idillico,
ma maturato attraverso la prova e la sofferenza - che noi chiediamo a tutti
di superare le illegittime e pericolose diversità per riconoscersi fratelli
che l’amore di Cristo unisce. V. POLARIZZAZIONE
DEL DISSENSO Le interne opposizioni interessanti i vari settori della vita ecclesiale, qualora
si stabilizzano in uno stato di dissidenza, portano a contrapporre all’unica
istituzione e comunità di salvezza una pluralità di "istituzioni o
comunità del dissenso", che non sono secondo la natura della chiesa, la
quale con la creazione di opposte frazioni e fazioni, fissate su posizioni
inconciliabili, perderebbe il suo stesso tessuto costituzionale. Avviene
allora la polarizzazione del dissenso in forza della quale tutto l’interesse
è concentrato sui rispettivi gruppi, praticamente
autocefali, ognuno dei quali ritiene di rendere onore a Dio. Questa
situazione porta in sé e introduce per quanto può, nella comunione
ecclesiale, i germi della disgregazione. Auspichiamo vivamente che la voce della coscienza induca i
singoli individui a un processo di riflessione che
li porti ad una più consapevole scelta. Noi a questo, tutti e ciascuno,
esortiamo: "Scruta l’intimo segreto del tuo cuore e penetra, da
diligente esploratore, nei meandri della tua anima" (32).
E in ciascuno vorremmo risvegliare la
nostalgia di quanto ha perduto: "Ricorda dunque da dove sei caduto, ravvediti e compi le opere di prima" (cf. Ap 2,5). E
vorremmo esortare ciascuno a riconsiderare il prodigio divino che in lui s’è
compiuto e ad avvertirne le condizionanti esigenze davanti al Signore: "Di
nient’altro deve avere paura il cristiano che di essere separato dal corpo di
Cristo. Se, infatti, viene separato dal corpo di
Cristo, non è suo membro; se non è suo membro, non è alimentato dal suo
Spirito. E se qualcuno - dice l’apostolo - non ha lo
Spirito di Cristo, non gli appartiene" (33). VI. ETICA E DINAMICA
DELLA RICONCILIAZIONE È, quindi, una necessità vitale che tutti nella chiesa, vescovi,
sacerdoti, religiosi, laici, prendano parte attiva ad un comune sforzo di
piena riconciliazione, perché in tutti e tra tutti sia ricomposta la pace
"nutrice di amore e genitrice di unità" (34). Si manifesti, dunque, ciascuno sempre più docile discepolo del
Signore, che fa della riconciliazione tra noi la condizione per essere
perdonati dal Padre (cf. Mc 11,26), e della mutua
carità la condizione per essere riconosciuti come discepoli suoi (cf. Gv
13,35). Chiunque, perciò, si senta in qualsiasi modo implicato in questo
stato di divisione, ritorni ad ascoltare la sua voce che lo incalza
irresistibile anche nel momento in cui sta per pregare: "Va’ prima a
riconciliarti con il tuo fratello" (Mt 5,24). Tutti in pari tempo, in misure e forme diverse secondo la
posizione e lo stato di ciascuno, riconsiderando l’opera salvatrice di Dio
nei nostri riguardi, siano impegnati a creare il clima adatto perché la
riconciliazione diventi effettiva. Poiché noi siamo stati riconciliati con lui per esclusiva
iniziativa del suo amore, sia il nostro comportamento improntato alla
benevolenza e alla misericordia, perdonandoci a vicenda come Dio in Cristo ha
perdonato noi (cf. Ef 4,31-32). E poiché la nostra
riconciliazione deriva dal sacrificio di Cristo volontariamente morto per
noi, sia la croce, posta come albero maestro nella chiesa per guidarla nella
sua navigazione nel mondo (35), l’ispiratrice delle
nostre reciproche relazioni, perché tutte siano veramente cristiane.
Da nessuna di esse sia assente qualche rinuncia
personale. Ne conseguirà una fraterna apertura agli altri, tale da far
riconoscere volentieri le capacità di ciascuno, e da consentire a tutti di
dare il proprio apporto all’arricchimento dell’unica comunione ecclesiale
"così che tutto e le singole parti sono rafforzate,
comunicando ognuna con le altre e concordemente operando per la
pienezza" (36). In questo senso, si può consentire
sul fatto che l’unità ben compresa permette a ciascuno di sviluppare la
propria personalità. Questa apertura agli altri, sorretta da
volontà di comprensione e da capacità di rinuncia, renderà stabilmente e
ordinatamente operante quell’atto di carità comandatoci dal Signore, che è la
correzione fraterna (cf. Mt 18,15). Dato che questa
può essere fatta da qualunque fedele ad ogni fratello nella fede, può essere
il mezzo normale per risanare non pochi dissensi o per impedire che ne
sorgano (37). A sua volta, essa spinge chi la
compie a toglier la trave dal suo occhio (cf. Mt 7,5), perché non sia
pervertito l’ordine della correzione (38). E quindi la
pratica della medesima si risolve in principio di animazione
verso la santità, che sola può dare alla riconciliazione la sua pienezza; la
quale consiste non in una pacificazione opportunistica che maschererebbe la
peggiore delle inimicizie (39), ma nella conversione
interiore e nell’amore unificante in Cristo che ne deriva, quale si effettua
principalmente nel sacramento della riconciliazione, che è la penitenza,
mediante la quale i fedeli "ricevono dalla misericordia di Dio il
perdono delle offese fatte a lui e insieme si riconciliano con la chiesa,
alla quale hanno inflitto una ferita col peccato" (40),
purché "questo,.. sacramento di salvezza... prenda radice in tutta la
loro vita e li spinga ad un più fervente servizio di Dio e dei fratelli"
(41). Rimane tuttavia che "nella struttura del corpo di Cristo
vige una diversità di membri e offici" (42), e che
questa diversità provoca inevitabili tensioni. Esse sono riscontrabili anche
nei santi, ma non tali da uccidere la concordia, non tali da distruggere la
carità (43). Come impedire che esse degenerino in
divisione? È da quella stessa diversità di persone e di funzioni che deriva il sicuro principio di coesione ecclesiale. Di
quella diversità, infatti, sono componente primaria
e insostituibile i pastori della chiesa, costituiti da Cristo suoi
ambasciatori presso gli altri fedeli e dotati, per questo, di un’autorità
che, trascendendo le posizioni ed opzioni dei singoli, tutte le unifica
nell’integrità del vangelo, che è appunto la "parola della
riconciliazione" (cf. 2 Cor 5,18-20). L’autorità con la quale
essi lo propongono è vincolante non per accettazione da parte degli uomini,
ma per conferimento da parte di Cristo (cf. Mt
28,18; Mc 16,15-16; At 26,17s). Poiché, dunque, chi
ascolta o disprezza loro ascolta o disprezza Cristo e colui
che lo ha mandato (cf. Lc 10,16), il dovere d’obbedienza dei
fedeli all’autorità dei pastori è esigenza ontologica dello stesso essere
cristiano. I pastori della chiesa, d’altra parte, formano
costituzionalmente un unico corpo indiviso col successore di Pietro e in
dipendenza da lui; perciò dal concorde adempimento e dalla fedele
accettazione del loro ministero dipende l’unità di fede e di comunione di
tutti i credenti (44), manifestazione al mondo della
riconciliazione attuata da Dio nella sua chiesa. Che trovi, dunque,
esaudimento la comune invocazione al Salvatore: "Assisti sempre il
collegio dei vescovi col nostro Papa; e concedi ad essi
i doni dell’unità, della carità e della pace" (45).
Che i sacri pastori, come in modo eminente e visibile rappresentano Cristo
stesso e ne fanno le veci (46), così
imitino e trasfondano nel popolo di Dio l’amore con cui egli si è immolato:
"ha amato la chiesa e ha dato se stesso per lei" (Ef 5,25). E sia questo loro rinnovato amore, esempio efficace per i
fedeli, in primo luogo per i sacerdoti e i religiosi, che fossero venuti meno
alle esigenze del proprio ministero e vocazione, di modo che tutti nella
chiesa, "con un cuore solo e un’anima sola" (cf. At 4,32),
tornino ad essere impegnati "a propagare il vangelo della pace". (Ef
6,15). La madre chiesa guarda con amarezza all’abbandono di alcuni suoi figli insigniti del sacerdozio ministeriale
o, con altro speciale titolo, consacrati al servizio di Dio e dei fratelli. Tuttavia trova sollievo e gioia nella generosa
perseveranza di tutti quelli rimasti fedeli ai loro impegni con Cristo e con
la chiesa; e, sorretta e confortata dai meriti di questa moltitudine, essa
vuole convertire anche il dolore che le è stato arrecato in amore che tutto
può comprendere e che tutto può in Cristo perdonare. CONCLUSIONE Noi, che in quanto successori di
Pietro, non certo per nostro merito personale, ma in virtù del mandato
apostolico a noi trasmesso, siamo, nella chiesa, visibile principio e
fondamento di unità dei sacri pastori come pure della moltitudine dei fedeli (47), rivolgiamo il nostro appello al pieno ristabilimento
del bene supremo della riconciliazione con Dio, dentro di noi e tra di noi,
affinché la chiesa sia nel mondo segno efficace di unione con Dio e di unità
tra tutte le sue creature. È questa un’esigenza della nostra fede nella
chiesa stessa, "che nel Simbolo professiamo una, santa,
cattolica e apostolica" (48). Ad amarla, a seguirla,
ad edificarla noi tutti pressantemente scongiuriamo,
facendo nostre le parole di S. Agostino: "Amate questa chiesa, siate in
tale chiesa, siate tale chiesa" (49). È l’invito che rivolgiamo a tutti i nostri
figli, specialmente a quanti hanno la responsabilità di guidare i fratelli,
con questa esortazione. L’abbiamo voluta pastorale e
piena di fiducia, dettata da uno spirito di pace. Forse, a qualcuno potrà
sembrare severa. Ma essa è nata da uno sguardo
gettato in profondità sulla situazione della chiesa, da una parte, e sulle
esigenze irrinunciabili del vangelo, dall’altra. Ma è scaturita specialmente
dal nostro cuore: Noi abbiamo il
dovere di amare la chiesa con lo stesso spirito della allegoria
del tralcio che dev’essere potato per portare maggiore frutto (cf. Gv
15,2). Questa esortazione,
infine, è sorretta da una grande speranza, che il grave peso del nostro
apostolico mandato non ha mai alterata. Noi siamo
grati alla fedeltà di Dio. Noi speriamo che lo Spirito santo
susciterà un’irresistibile eco alle nostre parole: egli è già presente e
operante nel segreto del cuore di ciascun fedele, e tutti condurrà,
nell’umiltà e nella pace, sulle vie della
verità e dell’amore. È lui la nostra forza. Sappiamo che l’immensa
maggioranza dei figli della chiesa attendeva un tale richiamo, ed è preparata
ad accoglierlo con frutto. Auspichiamo che l’intero popolo di Dio - è il
nostro voto ardente - si metta con noi al passo, come nel biblico cammino con
noi intraprenda le tappe di santificazione del giubileo, e sia con noi una
cosa sola, affinché il mondo cresca; e si lasci guidare dalla grazia del
signore nostro Gesù Cristo, dall’amore di Dio Padre, dalla comunione dello
Spirito santo. Affidiamo questi voti all’intercessione della Vergine immacolata
"che rifulge come modello di virtù a tutta la comunità degli eletti..." e per la sua intima
partecipazione alla storia della salvezza, riunisce in qualche modo e
riverbera in sé i massimi dati della fede (50); e
confortiamo la comune volontà di santificazione e di riconciliazione con
l’impartire di cuore la nostra benedizione apostolica. Roma, presso San Pietro, nella solennità
dell’immacolata concezione della b. v. Maria, 8 dicembre 1974, anno
dodicesimo del nostro pontificato. _______________________ (1) Cfr. AAS
65, 1973, pp.323 s. (2) Cfr. Lumen
Gentium, 3: AAS 57, 1965, p.6 (3) Gaudium
et Spes, 21: AAS 58, 1966, p.1041 (4) Cfr. Bolla Apostolorum limina, 23
maggio 1974: AAS 66, 1974, p.306 (5) S. LEONE M. Serm. 26, 5: PL 54, 215. (6) TEODORETO CIR. Interpr. Epist. II ad Cor.: PG 82, 411 A. (7) Lumen Gentium, 7: AAS 57, 1965, p.9 (8) S. AGOSTINO Serm. 96, 7, 8: PL 38, 588 (9) S. GIROLAMO In Epist. ad
Eph. 1, 2: PL 26, 504 (10) S. AMBROGIO In Luc. 5, 58: PL 15, 1737 (11) Cfr. S. GIOV. CRISOSTOMO In
Matth., Homil. 16, 9: PG
57, 250; S. ISIDORO PELUS. Epist. 4, 111: PG
78, 1178; NICOLAS CABASILAS. Explic. div. Liturg. 26, 2: Sourc.
chrét. 4 bis, p. 171 (12)
S. CIRILLO ALESS. In Epist. II ad Cor:
PG 74, 943 D. (13) Lumen
Gentium, 27: AAS 57, 1965, p. 32 (14) Cfr. Lumen
Gentium, 11: AAS 57, 1965, p. 15 (15) Lumen
Gentium, 1: AAS 57, 1965, p.5 (16) Lumen
Gentium, 4: AAS 57, 1965, p.7 (17) Gaudium
et Spes, 43: AAS 58, 1966, p.1064 (18) Unitatis Redintegratio, 3: AAS 57,
1965, p. 92 (19) In Unitatis Redintegratio, 2 : AAS 57, 1965, p.
92 (20) Lumen
Gentium, 8: AAS 57, 1965, p. 11 (21) Lumen
Gentium, 8: AAS 57, 1965, p. 12 (22) S. Giov. CRISOSTOMO, In Epist. ad Coloss.
Homil. 3, 5: PG 62,
324 (23) Cfr. Dei
Verbum, 10: AAS 58, 1966, p. 822 (24) Lumen
Gentium, 23: AAS 57, 1965, p. 29 (25) S.
AGOSTINO Epist. 187, 11, 34: PL 33, 845 (26) Cfr. S.
EFREM. STR. Comment.
Evang. concord. 1, 18: Sourc. chrét. p. 52 (27)Cfr. Dei
Verbum, 7: AAS 58, 1966, p. 820 (28) Dei
Verbum, 10: AAS 58, 1966, p. 822 (29) Dei
Verbum, 8: AAS 58, 1966, p. 820 (30)Cfr. Lumen
Gentium, 9: AAS 57, 1965, p. 13 (31) TERTULLIANO. Apologeticum
XXXIX, 7; Corpus Christianorum, Series Latina, I, 1, p. 151 (32) S. LEONE M. Tract. 84
bis, 2: Corpus Christ. 138 A, p. 530 (33) S. AGOSTINO In Io. Evang., 27,
6: PL 35, 1618 (34) S. LEONE M. Serm. 26, 3: PL 54, 214 (35) Cfr. S. MASSIMO TOR. Serm. 37,
2: Corpus Christ. 23, p. 145 (36) Lumen
Gentium, 13: AAS 57, 1965, p. 17 s. (37)
Cfr. S. TOMMASO. Summa theol. II-IIæ, q. 33,
a. 4: Opera omnia, Ed. Leon., t. VIII, p. 266 (38) Cfr. S. BONAVENTURA. In IV Sent., dist. 19, dub. 4: Opera omnia, Ad Claras
Aquas, t. IV, p. 512 (39) Cfr. S. GIROLAMO. Contra
Pelagian. 2, 11: PL 23,
546 (40) Lumen
Gentium, 11: AAS 57, 1965, p. 15 (41) Ordo Paenitentiae, Praenotanda,
n. 7, Typis Polyglottis Vaticanis 1974, p. 14 (42) Lumen
Gentium, 7: AAS 57, 1965, p. 10 (43) S.
AGOSTINO. Enarrat. in Ps. 33, 19: PL
36, 318 (44) Cfr. Pastor
Aeternus, Prooem.: DS
3050; Lumen Gentium, 18: AAS 57, 1965, p. 22.
(45) Liturgia
Horarum, IV, Typis
Polyglottis Vaticanis
1972, p. 513 (46) Cfr. Lumen
Gentium, 21: AAS 57, 1965, p. 25 (47) Cfr. Lumen
Gentium, 23: AAS 57, 1965, p. 27 (48) Lumen
Gentium, 8: AAS 57, 1965, p. 11 (49) Serm. 138, 10: PL 38, 769 (50) Lumen Gentium, 65: AAS 57, 1965, p. 64
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