PAPA GIOVANNI PAOLO II
I. Introduzione Un segno dei tempi 1. La dignità
della donna e la sua vocazione - oggetto costante della riflessione umana e
cristiana - hanno assunto un rilievo tutto particolare negli anni più
recenti. Ciò è dimostrato, tra l’altro, dagli interventi del Magistero della
Chiesa, rispecchiati in vari documenti del Concilio Vaticano II, il quale
afferma poi nel messaggio finale: "Viene l’ora, l’ora è venuta, in cui
la vocazione della donna si svolge con pienezza, l’ora in cui la donna
acquista nella società un’influenza, un irradiamento, un potere finora mai
raggiunto. E per questo che, in un momento in cui
l’umanità conosce una così profonda trasformazione, le donne illuminate dallo
spirito evangelico possono tanto operare per aiutare l’umanità a non decadere".
(Conc. Oecum. Vat. II "Nuntius ad
Mulieres", die 8 dec. 1965: AAS 58 [1966] 13-14) Le parole di questo
messaggio riassumono ciò che aveva già trovato espressione nel Magistero
conciliare, specie nella costituzione pastorale "Gaudium et Spes"
(cf. "Gaudium et Spes", 8.9.60) e nel decreto
sull’apostolato dei laici "Apostolicam Actuositatem" (cf.
"Apostolicam Actuositatem", 9). Simili prese di
posizione si erano manifestate nel periodo preconciliare, per esempio in non
pochi discorsi del Papa Pio XII (cf. Pii XII "Allocutio ad Mulieres e Societatibus Christianis Italiae
delegatas", die 21 oct. 1945: AAS 37 [1945] 284-295; Pii XII
"Allocutio ad delegatas Conventui Unionis
universalis Sodalitatum mulierum catholicarum", die 24 apr. 1952: AAS 44
[1952] 420-424; Pii XII "Allocutio ad eas quae interfuerunt XIV
Conventui Internationali ex "Union Mondiale des Organisations féminines
catholiques"", die 29 sept. 1957: AAS 49 [1957]
906-922) e nell’enciclica "Pacem in Terris" di Papa Giovanni XXIII
(cf. Ioannis XXIII "Pacem in Terris", die
11 apr. 1963: AAS 55 [1963] 267-268). Dopo il Concilio Vaticano II, il
mio predecessore Paolo VI ha esplicitato il
significato di questo "segno dei tempi", attribuendo il titolo di
dottore della Chiesa a santa Teresa di Gesù e a santa Caterina da Siena
(Pauli VI "Declaratio S. Teresiae de Avila, Virginis, "Doctoris
universalis Ecclesiae"", die 27 sept. 1970:
Insegnamenti di Paolo VI, VIII [1970] 949-957; Pauli VI "Declaratio S.
Catherinae Senensis, Virginis, "Doctoris universalis Ecclesiae"",
die 4 oct. 1970: Insegnamenti di Paolo VI, VIII [1970] 982-988) ed
istituendo, altresì, su richiesta dell’assemblea del
Sinodo dei Vescovi nel 1971, un’apposita commissione, il cui scopo era lo
studio dei problemi contemporanei riguardanti la "promozione effettiva
della dignità e della responsabilità delle donne" (AAS 65 [1973] 284s).
In uno dei suoi discorsi Paolo VI disse tra l’altro: "Nel cristianesimo,
infatti, più che in ogni altra religione, la donna ha fin dalle origini uno
speciale statuto di dignità, di cui il nuovo testamento ci attesta non pochi
e non piccoli aspetti...; appare all’evidenza che la donna è posta a far
parte della struttura vivente ed operante del cristianesimo in modo così
rilevante che non ne sono forse ancora state enucleate tutte le
virtualità" (Pauli VI "Allocutio ad eas quae interfuerunt Nationali
Conventui Consociationis Italicarum Mulierum", CIF, die 6 dec. 1976: Insegnamenti di Paolo VI, XIV [1976] 1017). I Padri della
recente assemblea del Sinodo dei Vescovi (ottobre 1987), dedicata a "la
vocazione e la missione dei laici nella Chiesa e nel mondo a vent’anni dal
Concilio Vaticano II", si sono di nuovo
occupati della dignità e della vocazione della donna. Essi hanno auspicato,
tra l’altro, l’approfondimento dei fondamenti antropologici e teologici
necessari a risolvere i problemi relativi al
significato e alla dignità dell’essere donna e dell’essere uomo. Si tratta di
comprendere la ragione e le conseguenze della decisione del Creatore che
l’essere umano esista sempre e solo come femmina e come maschio. Solo
partendo da questi fondamenti, che consentono di cogliere la profondità della
dignità e della vocazione della donna, è possibile parlare della sua presenza
attiva nella Chiesa e nella società. È quanto intendo
trattare nel presente documento. L’esortazione post-sinodale, che verrà resa pubblica dopo di esso, presenterà le proposte
di indole pastorale circa il posto della donna nella Chiesa e nella società,
sulle quali i Padri sinodali hanno fatto importanti considerazioni, avendo
anche vagliato le testimonianze degli uditori laici - donne e uomini -
provenienti dalle Chiese particolari di tutti i continenti. L’anno mariano 2. L’ultimo
Sinodo si è svolto durante l’anno mariano, che offre un particolare impulso
ad affrontare questo tempo, come indica anche la enciclica
"Redemptoris Mater" (cf. "Redemptoris Mater", 46). Questa
enciclica sviluppa e attualizza l’insegnamento del Concilio Vaticano II,
contenuto nel capitolo VIII della costituzione dogmatica sulla Chiesa
"Lumen Gentium". Tale capitolo reca un titolo significativo:
"La beata Vergine Maria, Madre di Dio, nel mistero di Cristo e della
Chiesa". Maria - questa "donna" della Bibbia (cf. Gen 3,15; Gv
2,4;19,26) - appartiene intimamente al mistero
salvifico di Cristo, e perciò è presente in modo speciale anche nel mistero
della Chiesa. Poiché "la Chiesa è in Cristo come un sacramento...
dell’intima unione con Dio e della unità di tutto il
genere umano" ("Lumen Gentium", 1), la speciale presenza della
Madre di Dio nel mistero della Chiesa ci lascia pensare all’eccezionale
legame tra questa "donna" e l’intera famiglia umana. Si tratta qui
di ciascuno e di ciascuna, di tutti i figli e di tutte le figlie del genere
umano, nei quali si realizza nel corso delle generazioni quella fondamentale
eredità dell’intera umanità che è legata al mistero del "principio"
biblico: "Dio creò l’uomo a sua immagine; a
immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò" (Gen 1,27;
un’illustrazione del significato antropologico e teologico del "principio"
può vedersi nella prima parte delle allocuzioni del mercoledì dedicate alla
"teologia del corpo", a partire dal 5 settembre 1979: Insegnamenti
di Giovanni Paolo II, II, 2 [1979] 234-236). Questa eterna
verità sull’uomo, uomo e donna - verità che è anche immutabilmente fissata
nell’esperienza di tutti - costituisce contemporaneamente il mistero che
soltanto nel "Verbo incarnato trova vera luce... Cristo
svela pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima
vocazione", come insegna il Concilio ("Gaudium et Spes", 22).
In questo "svelare l’uomo all’uomo" non bisogna forse scoprire un
posto particolare per quella "donna", che fu la Madre di Cristo? Il
"messaggio" di Cristo, contenuto nel Vangelo e che ha per sfondo tutta la Scrittura, antico e nuovo testamento,
non può forse dire molto alla Chiesa e all’umanità circa la dignità e la
vocazione della donna? Proprio questa
vuol essere la trama del presente documento, che si inquadra
nel vasto contesto dell’anno mariano, mentre ci si avvia al termine del
secondo millennio dalla nascita di Cristo e all’inizio del terzo. E mi sembra che la cosa migliore sia quella di dare a
questo testo lo stile e il carattere di una meditazione. II. Donna-Madre di Dio (Theotókos) Unione con Dio 3. Quando "venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo
Figlio, nato da donna". Con queste parole della lettera ai Galati (Gal
4,4) l’apostolo Paolo unisce tra loro i momenti principali che determinano in
modo essenziale il compimento del mistero "prestabilito in Dio" (cf.
Ef 1,9). Il Figlio, Verbo consostanziale al Padre, nasce come uomo da una
donna, quando viene "la pienezza del tempo". Questo avvenimento
conduce al punto chiave della storia dell’uomo sulla terra, intesa come
storia della salvezza. È significativo che l’Apostolo
non chiami la Madre di Cristo col nome proprio di "Maria", ma la
definisca "donna": ciò stabilisce una concordanza con le parole del
protoevangelo nel libro della Genesi (cf. Gen 3,15). Proprio quella
"donna" è presente nell’evento centrale salvifico, che decide della
"pienezza del tempo": questo evento si
realizza in lei e per mezzo di lei. Così inizia
l’evento centrale, l’evento chiave nella storia della salvezza, la Pasqua del
Signore. Tuttavia, vale forse la pena di riconsiderarlo a partire dalla
storia spirituale dell’uomo intesa nel modo più ampio, così come si esprime
attraverso le diverse religioni del mondo. Appelliamoci qui
alle parole del Concilio Vaticano II: "Gli uomini si attendono dalle
varie religioni la risposta ai reconditi enigmi della condizione umana che,
ieri come oggi, turbano profondamente il cuore umano: che cosa sia l’uomo,
quale sia il senso e il fine della nostra vita, che cosa siano il bene e il
peccato, quale origine e fine abbia il dolore, quale sia la via per raggiungere
la vera felicità, che cosa siano la morte, il giudizio e la sanzione dopo la
morte, infine l’ultimo e ineffabile mistero che circonda la nostra esistenza,
dal quale traiamo la nostra origine e verso cui tendiamo" ("Nostra
Aetate", 1). "Dai tempi più antichi fino ad oggi, presso i
vari popoli si trova una certa percezione di quella forza arcana che è
presente nel corso delle cose e negli avvenimenti della vita umana, e anzi
talvolta si ha riconoscimento della suprema divinità o anche del padre"
("Nostra Aetate", 2). Sullo
sfondo di questo vasto panorama, che pone in evidenza le aspirazioni dello
spirito umano in cerca di Dio - a volte quasi "andando come a
tentoni" (cf. At 17,27) -, la "pienezza del tempo", di cui parla Paolo
nella sua lettera, mette in rilievo la risposta di
Dio stesso, di colui "in cui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo"
(cf. At 17,28). È questi il Dio che "aveva già
parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo
dei profeti, e ultimamente ha parlato a noi per mezzo del Figlio" (cf.
Eb 1,1-2). L’invio di questo Figlio, consostanziale al Padre, come uomo
"nato da donna", costituisce il culminante e definitivo punto
dell’autorivelazione di Dio all’umanità. Questa autorivelazione possiede un
carattere salvifico, come insegna in un altro passo il Concilio Vaticano II:
"Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelare se stesso e
manifestare il mistero della sua volontà (cf. Ef 1,9), mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto
carne, nello Spirito Santo hanno accesso al Padre e sono resi partecipi della
divina natura" (cf. Ef 2,18; 2Pt 1,4; "Dei
Verbum", 2). La donna si trova
al cuore di questo evento salvifico.
L’autorivelazione di Dio, che è l’imperscrutabile unità della Trinità, è
contenuta nelle sue linee fondamentali nell’annunciazione di Nazaret.
"Ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù.
Egli sarà grande e chiamato Figlio dell’Altissimo". "Come avverrà
questo? Non conosco uomo". "Lo Spirito Santo scenderà
su di te, su di te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo. Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di
Dio... Nulla è impossibile a Dio" (cf. Lc 1,31-37). Già secondo i Padri
della Chiesa, la prima rivelazione della Trinità nel nuovo testamento è avvenuta
nell’annunciazione. In un’omelia attribuita a S. Gregorio il Taumaturgo si
legge: "Sei splendore di luce, o Maria, nel
sublime regno spirituale! In te il Padre, che è senza principio e la cui
potenza ti ha ricoperto, è glorificato. In te il Figlio, che hai portato
secondo la carne, è adorato. In te lo Spirito Santo, che ha operato nelle tue
viscere la nascita del grande Re, è celebrato. È grazie a te, o piena di
grazia, che la Trinità santa e consustanziale ha potuto
essere conosciuta nel mondo" . Cfr. S. Andreae Cretensis "In
Annuntiat. B. Mariae": PG 97, 909). È facile pensare
a questo evento nella prospettiva della storia
d’Israele, il popolo eletto di cui Maria è figlia; ma è facile anche pensarvi
nella prospettiva di tutte quelle vie, lungo le quali l’umanità da sempre
cerca risposta agli interrogativi fondamentali ed insieme definitivi che più
l’assillano. Non si trova forse nell’annunciazione di Nazaret l’inizio di
quella risposta definitiva, mediante la quale Dio stesso viene incontro alle inquietudini
del cuore dell’uomo? (cf. "Nostra Aetate", 2) Qui non si tratta
solo di parole di Dio rivelate per mezzo dei
profeti, ma, con questa risposta, realmente "il Verbo si fa carne"
(cf. Gv 1,14). Maria raggiunge così un’unione con Dio tale da superare tutte
le attese dello spirito umano. Supera persino le attese di tutto Israele e,
in particolare, delle figlie di questo popolo eletto, le quali, in base alla
promessa, potevano sperare che una di esse sarebbe
un giorno divenuta madre del Messia. Chi di loro, tuttavia, poteva supporre
che il Messia promesso sarebbe stato il "Figlio dell’Altissimo"? A
partire dalla fede monoteista veterotestamentaria ciò era difficilmente
ipotizzabile. Solamente in forza dello Spirito Santo, che "stese la sua
ombra" su di lei, Maria poteva accettare ciò che è
"impossibile presso gli uomini, ma possibile presso Dio" (cf. Mc
10,27). Theotókos 4. In tal modo
"la pienezza del tempo" manifesta la straordinaria dignità della
"donna". Questa dignità consiste, da una parte, nell’elevazione
soprannaturale all’unione con Dio in Gesù Cristo, che determina la
profondissima finalità dell’esistenza di ogni uomo
sia sulla terra che nell’eternità. Da questo punto di vista, la
"donna" è la rappresentante e l’archetipo di tutto il genere umano:
rappresenta l’umanità che appartiene a tutti gli esseri umani, sia uomini che
donne. D’altra parte, però, l’evento di Nazaret mette in
rilievo una forma di unione col Dio vivo, che può appartenere solo
alla "donna", Maria: l’unione tra madre e figlio. La Vergine di
Nazaret diventa, infatti, la Madre di Dio. Questa verità,
accolta sin dall’inizio dalla fede cristiana, ebbe solenne formulazione nel
Concilio di Efeso (anno 431) (La dottrina teologica
sulla Madre di Dio sostenuta da molti Padri della Chiesa, chiarita e definita
nei Concilii di Efeso e di Calcedonia , è stata riproposta dal Concilio
Vaticano II, nel capitolo VIII della "Lumen Gentium", 52-69. Cfr.
"Redemptoris Mater", 4.31-32 et notae 9.78-83). Contrapponendosi
all’opinione di Nestorio, che riteneva Maria esclusivamente madre di
Gesù-uomo, questo Concilio mise in rilievo
l’essenziale significato della maternità di Maria Vergine. Al momento
dell’annunciazione, rispondendo col suo "fiat", Maria concepì un
uomo che era Figlio di Dio, consostanziale al Padre. Dunque,
è veramente la Madre di Dio, poiché la maternità riguarda tutta la persona, e
non solo il corpo, e neppure solo la "natura" umana. In
questo modo il nome "Theotókos" - Madre di Dio - divenne il nome
proprio dell’unione con Dio, concessa a Maria Vergine. La particolare
unione della "Theotókos" con Dio, che realizza nel modo più
eminente la predestinazione soprannaturale all’unione col Padre elargita ad
ogni uomo ("filii in Filio"), è pura grazia e, come tale, un dono
dello Spirito. Nello stesso tempo, però, mediante la risposta di fede Maria
esprime la sua libera volontà, e dunque la piena partecipazione
dell’"io" personale e femminile all’evento dell’ncarnazione.
Col suo "fiat", Maria diviene l’autentico soggetto di quell’unione
con Dio, che si è realizzata nel mistero dell’incarnazione del Verbo
consostanziale al Padre. Tutta l’azione di Dio nella storia degli uomini rispetta sempre la libera volontà dell’"io" umano.
Lo stesso avviene nell’annunciazione a Nazaret. "Servire vuol dire regnare" 5. Questo evento
possiede un chiaro carattere interpersonale: è un dialogo. Non lo
comprendiamo pienamente se non inquadriamo tutta la conversazione tra
l’angelo e Maria nel saluto: "piena di
grazia" (cf. "Redemptoris Mater", 7-11, "atque textus
Patrum ibi memorati" in nota 31). L’intero
dialogo dell’annunciazione rivela l’essenziale dimensione dell’evento: la
dimensione soprannaturale . Ma
la grazia non mette mai da parte la natura né la annulla, anzi la perfeziona
e nobilita. Pertanto, quella "pienezza di grazia", concessa alla
Vergine di Nazaret, in vista del suo divenire "Theotókos",
significa allo stesso tempo la pienezza della perfezione di ciò "che è
caratteristico della donna", di "ciò che è femminile". Ci troviamo
qui, in un certo senso, al punto culminante, all’archetipo della personale
dignità della donna. Quando Maria risponde alle
parole del celeste messaggero col suo "fiat", la "piena di
grazia" sente il bisogno di esprimere il suo personale rapporto riguardo
al dono che le è stato rivelato, dicendo: "Eccomi, sono la serva del
Signore" (Lc 1,38). Questa frase non può essere privata né sminuita del
suo senso profondo, estraendola artificialmente da tutto il contesto dell’evento e da tutto il contenuto della verità
rivelata su Dio e sull’uomo. Nell’espressione "serva del Signore"
si fa sentire tutta la consapevolezza di Maria di essere
creatura in rapporto a Dio. Tuttavia, la parola "serva", verso la
fine del dialogo dell’annunciazione, si inscrive
nell’intera prospettiva della storia della Madre e del Figlio. Difatti,
questo Figlio, che è vero e consostanziale "Figlio dell’Altissimo",
dirà molte volte di sé, specialmente nel momento culminante della sua
missione: "Il Figlio dell’uomo... non è venuto per essere servito, ma
per servire" (Mc 10,45). Cristo porta
sempre in sé la coscienza di essere "servo del
Signore", secondo la profezia di Isaia (cf. Is 42,1;49,3.6;52,13),
in cui è racchiuso il contenuto essenziale della sua missione messianica: la
consapevolezza di essere il redentore del mondo. Maria sin dal primo momento
della sua maternità divina, della sua unione col Figlio che "il Padre ha
mandato nel mondo, perché il mondo si salvi per mezzo di lui" (cf. Gv
3,17), si inserisce nel servizio messianico di
Cristo (cf. "Redemptoris Mater", 39-41). È proprio questo servizio
a costituire il fondamento stesso di quel regno, in cui "servire... vuol
dire regnare" ("Lumen Gentium", 36). Cristo, "servo del
Signore", manifesterà a tutti gli uomini la
dignità regale del servizio, con la quale è strettamente collegata la
vocazione d’ogni uomo. Così considerando
la realtà donna-Madre di Dio, entriamo nel modo più opportuno nella presente
meditazione dell’anno mariano. Tale realtà determina anche l’essenziale
orizzonte della riflessione sulla dignità e sulla vocazione della donna. Nel
pensare, dire, o fare qualcosa in ordine alla
dignità e alla vocazione della donna non si devono distaccare il pensiero, il
cuore e le opere da questo orizzonte. La dignità di ogni
uomo e la vocazione ad essa corrispondente trovano la loro misura definitiva
nell’unione con Dio. Maria - la donna della Bibbia - è la più compiuta
espressione di questa dignità e di questa vocazione.
Infatti, ogni uomo, maschio o femmina, creato a
immagine e somiglianza di Dio, non può realizzarsi al di fuori della
dimensione di questa immagine e somiglianza. III. Immagine e somiglianza di Dio Libro della Genesi 6. Dobbiamo
collocarci nel contesto di quel
"principio" biblico, in cui la verità rivelata sull’uomo come
"immagine e somiglianza di Dio" costituisce l’immutabile base di
tutta l’antropologia cristiana (cf. S. Iranaei "Adv. haereses",
V, 6, 1; V, 16, 2-3: S. Ch. 153, 72-81 et 216-221; S. Gregorii Nysseni
"De hom. op.", 16: PG 44, 180; "In
Cant. hom.", 2: PG 44, 805-808; S. Augustini
"In Ps. 4,8": CCL 38, 17). "Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò"
(Gen 1,27). Questo passo conciso contiene le verità antropologiche
fondamentali: l’uomo è l’apice di tutto l’ordine del creato nel mondo
visibile - il genere umano, che prende inizio dalla chiamata all’esistenza
dell’uomo e della donna, corona tutta l’opera della creazione -; ambedue sono
esseri umani, in egual grado l’uomo e la donna, ambedue creati a immmagine di Dio. Questa immagine e somiglianza con Dio,
essenziale per l’uomo, dall’uomo e dalla donna, come sposi e genitori, viene trasmessa ai loro discendenti: "Siate fecondi e
moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela" (Gen 1,28). Il Creatore
affida il "dominio" della terra al genere umano, a tutte le
persone, a tutti gli uomini e a tutte le donne, che attingono la loro dignità
e vocazione dal comune "principio". Nella Genesi
troviamo ancora un’altra descrizione della creazione dell’uomo - uomo e donna
(cf. Gen 2,18-25) -, alla quale ci si riferirà in seguito. Fin d’ora,
tuttavia, bisogna affermare che dalla notazione biblica emerge la verità sul
carattere personale dell’essere umano. L’uomo è una persona, in egual misura
l’uomo e la donna: ambedue, infatti, sono stati creati ad immagine e
somiglianza del Dio personale. Ciò che rende l’uomo simile a Dio è il fatto che - diversamente da tutto il mondo delle
creature viventi, compresi gli esseri dotati di sensi ("animalia")
- l’uomo è anche un essere razionale ("animal rationale") ("Persona
est naturae rationalis individua substantia": Manlii Severini Boëthii
"Liber de persona et duabus naturis" III: PL &$, 1443; cf. S.
Thomae Aquinatis "Summa Theologiae", I, q.
XXIX, art. I). Grazie a questa proprietà l’uomo e la donna possono "dominare"
sulle altre creature del mondo visibile (cf. Gen 1,28). Nella
seconda descrizione della creazione dell’uomo (cf. Gen 2,18-25) il
linguaggio in cui viene espressa la verità sulla
creazione dell’uomo e, specialmente, della donna, è diverso, in un certo
senso è meno preciso, è - si potrebbe dire - più descrittivo e metaforico:
più vicino al linguaggio dei miti allora conosciuti. Tuttavia, non si
riscontra alcuna essenziale contraddizione tra i due
testi. Il testo di Genesi 2,18-25 aiuta a comprendere bene ciò che troviamo
nel passo conciso di Genesi 1,27-28 e, al tempo stesso, se letto unitamente
ad esso, aiuta a comprendere in modo ancora più
profondo la fondamentale verità, ivi racchiusa, sull’uomo creato a immagine e
somiglianza di Dio come uomo e donna. Nella descrizione
di Genesi 2,18-25 la donna viene creata da Dio
"dalla costola" dell’uomo ed è posta come un altro "io",
come un interlocutore accanto all’uomo, il quale nel mondo circostante delle
creature animate è solo e non trova in nessuna di esse un "aiuto"
adatto a sé. La donna, chiamata in tal modo all’esistenza, è immediatamente
riconosciuta dall’uomo come "carne della sua carne e osso delle sue
ossa" (cf. Gen 2,23) e appunto per questo è chiamata "donna".
Nella lingua biblica questo nome indica l’essenziale identità nei riguardi
dell’uomo: "’is-’issah", cosa che in generale le lingue moderne non
possono purtroppo esprimere. "La si chiamerà
donna ("’issah"), perché dall’uomo ("’is") è stata
tolta" (Gen 2,23). Il testo biblico
fornisce sufficienti basi per ravvisare l’essenziale uguaglianza dell’uomo e
della donna dal punto di vista dell’umanità (Tra i
Padri della Chiesa che affermano l’eguaglianza fondamentale dell’uomo e della
donna davanti a Dio cf. Origenis "In Iesu nave", IX, 9: PG 12, 878;
Clementis Alexandrini "Paed.", I, 4: S.
Ch. 70, 128-131; S. Augustini "Sermo 51", II, 3: PL 38, 334-335).
Ambedue sin dall’inizio sono persone, a differenza degli altri esseri viventi
del mondo che li circonda. La donna è un altro "io" nella comune
umanità. Sin dall’inizio essi appaiono come "unità dei due" e ciò
significa il superamento dell’originaria solitudine, nella quale l’uomo non
trova "un aiuto che gli sia simile" (Gen 2,20). Si tratta qui solo
dell’"aiuto" nell’azione, nel "soggiogare la terra"? (cf.
Gen 1,28). Certamente si tratta della compagna della vita, con la quale, come
con una moglie, l’uomo può unirsi divenendo con lei "una sola
carne" e abbandonando per questo "suo padre e sua madre" (cf.
Gen 2,24). La descrizione biblica, dunque, parla dell’istituzione, da parte
di Dio, del matrimonio contestualmente con la creazione dell’uomo e della
donna, come condizione indispensabile della trasmissione della vita alle
nuove generazioni degli uomini, alla quale il
matrimonio e l’amore coniugale per loro natura sono ordinati: "Siate
fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra, soggiogatela" (Gen 1,28). Persona - comunione - dono 7. Penetrando col pensiero l’insieme della descrizione di Genesi
(Gen 2,18-25), ed interpretandola alla luce della verità sull’immagine e
somiglianza di Dio (cf. Gen 1,26-27), possiamo comprendere ancora più
pienamente in che cosa consista il carattere personale dell’essere umano,
grazie al quale ambedue - l’uomo e la donna - sono simili a Dio. Ogni singolo
uomo, infatti, è ad immagine di Dio in quanto
creatura razionale e libera, capace di conoscerlo e di amarlo. Leggiamo,
inoltre, che l’uomo non può esistere "solo" (cf. Gen 2,18); può
esistere soltanto come "unità dei due", e dunque in relazione ad
un’altra persona umana. Si tratta di una relazione reciproca: dell’uomo verso
la donna e della donna verso l’uomo. Essere persona ad immagine e somiglianza
di Dio comporta, quindi, anche un esistere in
relazione, in rapporto all’altro "io". Ciò prelude alla definitiva
autorivelazione di Dio uno e trino: unità vivente nella comunione del Padre,
del Figlio e dello Spirito Santo. All’inizio della
Bibbia non sentiamo ancora dire questo direttamente. Tutto l’antico
testamento è soprattutto la rivelazione della verità circa l’unicità e unità di
Dio. In questa fondamentale verità su Dio il nuovo testamento introdurrà la
rivelazione dell’imperscrutabile mistero della vita intima di
Dio. Dio, che si lascia conoscere dagli uomini per mezzo di Cristo, è unità
nella Trinità: è unità nella comunione. In tal modo è gettata una nuova luce
anche su quella somiglianza ed immagine di Dio nell’uomo, di cui parla il
libro della Genesi. Il fatto che l’uomo, creato come uomo e donna, sia
immagine di Dio non significa solo che ciascuno di loro individualmente è
simile a Dio, come essere razionale e libero.
Significa anche che l’uomo e la donna, creati come "unità dei due"
nella comune umanità, sono chiamati a vivere una comunione d’amore e in tal
modo a rispecchiare nel mondo la comunione d’amore che è in Dio, per la quale
le tre Persone si amano nell’intimo mistero dell’unica vita divina. Il Padre,
il Figlio e lo Spirito Santo, un solo Dio per l’unità della divinità,
esistono come persone per le imperscrutabili relazioni divine. Solamente in
questo modo diventa comprensibile la verità che Dio in se stesso è amore (cf.
1Gv 4,16). L’immagine e
somiglianza di Dio nell’uomo, creato come uomo e donna (per l’analogia che si
può presumere tra il Creatore e la creatura), esprime
pertanto anche l’"unità dei due" nella comune umanità. Questa
"unità dei due", che è segno della comunione interpersonale, indica
che nella creazione dell’uomo è stata inscritta anche una certa somiglianza
della comunione divina ("communio"). Questa somiglianza è stata
inscritta come qualità dell’essere personale di tutti e due,
dell’uomo e della donna, ed insieme come una chiamata e un compito.
Sull’immagine e somiglianza di Dio, che il genere umano porta in sé fin dal
"principio", è radicato il fondamento di tutto l’"ethos"
umano: l’antico e il nuovo testamento svilupperanno tale "ethos",
il cui vertice è il comandamento dell’amore (Dice S. Gregorio di Nissa:
"Dio è inoltre amore e fonte di amore. Dice
questo il grande Giovanni: "L’amore è da Dio" e "Dio è
amore" . Il Creatore ha impresso in noi anche
questo carattere. "Da questo tutti sapranno se siete miei discepoli, se
avrete amore gli uni per gli altri" . Dunque,
se questo non c’è, tutta l’immagine viene
sfigurata" ). Nell’"unità
dei due" l’uomo e la donna sono chiamati sin dall’inizio non solo ad
esistere "uno accanto all’altra" oppure "insieme", ma
sono anche chiamati ad esistere reciprocamente "l’uno per l’altro". Viene così spiegato anche il
significato di quell’"aiuto", di cui si parla in Genesi 2,18-25:
"Gli darò un aiuto simile a lui". Il contesto
biblico permette di intenderlo anche nel senso che la donna deve
"aiutare" l’uomo - e a sua volta questi deve aiutare lei - prima di
tutto a causa del loro stesso "essere persona umana": il che, in un
certo senso, permette all’uno e all’altra di scoprire sempre di nuovo e
confermare il senso integrale della propria umanità. È facile comprendere che
- su questo piano fondamentale - si tratta di un "aiuto" da ambedue
le parti e di un "aiuto" reciproco. Umanità significa chiamata alla
comunione interpersonale. Il testo di Genesi 2,18-25 indica che il matrimonio
è la prima e, in un certo senso, la fondamentale dimensione di questa
chiamata. Però non è l’unica. Tutta la storia
dell’uomo sulla terra si realizza nell’ambito di questa chiamata. In base al principio
del reciproco essere "per" l’altro, nella "comunione"
interpersonale, si sviluppa in questa storia l’integrazione nell’umanità
stessa, voluta da Dio, di ciò che è "maschile" e di ciò che è
"femminile". I testi biblici, a cominciare dalla Genesi, ci
permettono costantemente di ritrovare il terreno in cui si radica la verità
sull’uomo, il terreno solido ed inviolabile in mezzo ai tanti mutamenti
dell’esistenza umana. Questa verità
riguarda anche la storia della salvezza. Al riguardo, è particolarmente significativo un enunciato del Concilio Vaticano II. Nel
capitolo sulla "comunità degli uomini" della costituzione pastorale
"Gaudium et Spes" leggiamo: "Il Signore
Gesù, quando prega il Padre, perché "tutti siamo una cosa sola" (Gv
17,21-22), mettendoci davanti orizzonti impervi alla ragione umana, ci ha
suggerito una certa similitudine tra l’unione delle Persone divine e l’unione
dei figli di Dio nella verità e nella carità. Questa similitudine manifesta
che l’uomo, il quale sulla terra è la sola creatura che Dio ha voluto per se
stessa, non può ritrovarsi pienamente se non mediante un dono sincero di
sé" ("Gaudium et Spes". 24). Con queste parole
il testo conciliare presenta sinteticamente l’insieme della verità sull’uomo
e sulla donna - verità che si delinea già nei primi
capitoli del libro della Genesi - come la stessa struttura portante
dell’antropologia biblica e cristiana. L’uomo - sia uomo che donna - è
l’unico essere tra le creature del mondo visibile che Dio creatore "ha
voluto per se stesso": è dunque una persona. L’essere persona significa:
tendere alla realizzazione di sé (il testo
conciliare parla del "ritrovarsi"), che non può compiersi se non
"mediante un dono sincero di sé". Modello di una tale
interpretazione della persona è Dio stesso come Trinità, come comunione di
Persone. Dire che l’uomo è creato a immagine e
somiglianza di questo Dio vuol dire anche che l’uomo è chiamato ad esistere
"per" gli altri, a diventare un dono. Ciò riguarda ogni
essere umano, sia donna che uomo, i quali lo attuano nella peculiarità
propria dell’una e dell’altro. Nell’ambito della presente meditazione circa
la dignità e la vocazione della donna, questa verità sull’essere umano
costituisce l’indispensabile punto di partenza. Già il libro della Genesi
permette di scorgere, come in un primo abbozzo, questo carattere sponsale
della relazione tra le persone, sul cui terreno si svilupperà a sua volta la
verità sulla maternità, nonché quella sulla
verginità, come due dimensioni particolari della vocazione della donna alla
luce della rivelazione divina. Queste due dimensioni troveranno la loro più
alta espressione all’avvento della "pienezza del tempo" (cf. Gal 4,4) nella figura della "donna" di Nazaret:
Madre-Vergine. L’antropomorfismo del linguaggio biblico 8. La presentazione
dell’uomo come "immagine e somiglianza di Dio" subito all’inizio
della Sacra Scrittura riveste anche un altro significato. Questo fatto
costituisce la chiave per comprendere la rivelazione biblica come un discorso
di Dio su se stesso. Parlando di sé sia "per mezzo dei profeti, sia per
mezzo del Figlio" (cf. Eb 1,1.2) fattosi uomo, Dio parla con linguaggio
umano, usa concetti e immagini umane. Se questo modo
di esprimersi è caratterizzato da un certo antropomorfismo, la ragione sta
nel fatto che l’uomo è "simile" a Dio: creato a sua immagine e
somiglianza. E allora anche Dio è in qualche misura "simile"
all’uomo, e, proprio in base a questa somiglianza,
egli può essere conosciuto dagli uomini. Allo stesso tempo il linguaggio
della Bibbia è sufficientemente preciso per segnare i limiti della
"somiglianza" i limiti dell’"analogia". Infatti, la rivelazione biblica afferma che, se è vera la
"somiglianza" dell’uomo con Dio, è ancor più essenzialmente vera la
"non-somiglianza" (cf. Nm 23,19; Os 11,9; Is 40,18;
46,5; cf. "insuper Conc. Oec. Later. IV": Denz-Schönm, 806),
che separa dal Creatore tutta la creazione. In
definitiva, per l’uomo creato a somiglianza di Dio, Dio non cessa di essere colui "che abita una luce
inaccessibile" (1Tm 6,16): è il "diverso" per essenza, il
"totalmente altro". Questa
osservazione sui limiti dell’analogia - limiti della somiglianza dell’uomo
con Dio nel linguaggio biblico - deve essere tenuta in considerazione anche
quando, in diversi passi della Sacra Scrittura (specie nell’antico
testamento), troviamo dei paragoni che attribuiscono a Dio qualità
"maschili" oppure "femminili". Troviamo in essi l’indiretta conferma della verità che ambedue, sia
l’uomo che la donna, sono stati creati ad immagine e somiglianza di Dio. Se c’è somiglianza tra il Creatore e le creature, è
comprensibile che la Bibbia abbia usato nei suoi riguardi espressioni che gli
attribuiscono qualità sia "maschili" sia "femminili". Riportiamo
qui qualche passo caratteristico del profeta Isaia: "Sion ha detto:
"Il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato". Si dimentica forse una
donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue
viscere? Anche se una donna si dimenticasse, io invece non
ti dimenticherò mai" (Is 49,14-15). E
altrove: "Come una madre consola un figlio, così io vi consolerò; in
Gerusalemme sarete consolati" (Is 66,13). Anche nei salmi Dio viene paragonato a una madre premurosa: "Come un
bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è l’anima mia.
Speri Israele nel Signore" (Sal 131,2-3). In diversi passi l’amore di
Dio, sollecito per il suo popolo, è presentato a somiglianza di quello di una
madre: così come una madre, Dio "a portato" l’umanità e, in
particolare, il suo popolo eletto nel proprio seno, lo ha partorito nei
dolori, lo ha nutrito e consolato (cf. Is 42,14;46,3-4).
L’amore di Dio è presentato in molti passi come amore "maschile"
dello sposo e padre (cf. Os 11,1-4; Ger 3,4-19), ma
talvolta anche come amore "femminile" della madre. Questa caratteristica
del linguaggio biblico, il suo modo antropomorfico di parlare di Dio, indica
anche indirettamente il mistero dell’eterno "generare", che
appartiene alla vita intima di Dio. Tuttavia, questo
"generare" in sé stesso non possiede qualità "maschili"
né "femminili". È di natura totalmente
divina. È spirituale nel modo più perfetto, poiché "Dio è
spirito" (Gv 4,24), e non possiede nessuna proprietà tipica del corpo,
né "femminile" né "maschile". Dunque,
anche la "paternità" in Dio è del tutto divina, libera dalla
caratteristica corporale "maschile", che è propria della paternità
umana. In questo senso l’antico testamento parlava di Dio come di un padre e
si rivolgeva a lui come ad un padre. Gesù Cristo, che ha
posto questa verità al centro stesso del suo Vangelo come normativa della
preghiera cristiana, e che si rivolgeva a Dio chiamandolo: "Abbà -
Padre" (Mc 14,36), quale Figlio unigenito e consostanziale, indicava la
paternità in questo senso ultra-corporale, sovrumano, totalmente divino.
Parlava come Figlio, legato al Padre dall’eterno mistero del generare divino,
e ciò faceva essendo nello stesso tempo Figlio autenticamente umano della sua
Madre Vergine. Se all’eterna
generazione del Verbo di Dio non si possono attribuire qualità umane, né la
paternità divina possiede caratteri "maschili" in senso fisico, si
deve invece cercare in Dio il modello assoluto di ogni
"generazione" nel mondo degli esseri umani. In un tale senso -
sembra - leggiamo nella lettera agli Efesini: "Io piego le ginocchia
davanti al Padre, dal quale ogni paternità nei cieli e sulla terra prende
nome" (Ef 3,14-15). Ogni "generare" nella dimensione delle
creature trova il suo primo modello in quel generare che è in Dio in modo
completamente divino, cioè spirituale. A questo
modello assoluto, non-creato, viene assimilato ogni
"generare" nel mondo creato. Perciò tutto quanto
nel generare umano è proprio dell’uomo, come pure tutto quanto è proprio
della donna, ossia la "paternità" e la "maternità" umane,
porta in sé la somiglianza, ossia l’analogia col "generare" divino
e con quella "paternità" che in Dio è "totalmente
diversa": completamente spirituale e divina per essenza.
Nell’ordine umano, invece, il generare è proprio
dell’"unità dei due": ambedue sono "genitori", sia
l’uomo sia la donna. IV. Eva-Maria Il "principio" e il peccato 9.
"Costituito da Dio in uno stato di giustizia, l’uomo, però, tentato dal
maligno, fin dagli inizi della storia abusò della sua libertà, erigendosi contro
Dio e bramando di conseguire il suo fine al di fuori di Dio"
("Gaudium et Spes", 13). Con queste parole l’insegnamento
dell’ultimo Concilio ricorda la dottrina rivelata sul peccato e, in
particolare, su quel primo peccato che è quello "originale". Il
biblico "principio" - la creazione del mondo e dell’uomo nel mondo
- contiene in sé al tempo spesso la verità su questo peccato, che può essere chiamato anche il peccato del "principio"
dell’uomo sulla terra. Anche se ciò che è scritto nel libro
della Genesi è espresso in forma di narrazione simbolica, come nel caso della
descrizione della creazione dell’uomo come maschio e femmina (cf. Gen
2,18-25), al tempo stesso svela ciò che bisogna chiamare "il mistero del
peccato" e, più pienamente ancora, "il mistero del male"
esistente nel mondo creato da Dio. Non è possibile
leggere "il mistero del peccato" senza fare riferimento a tutta la
verità circa l’"immagine e somiglianza" con Dio, che sta alla base
dell’antropologia biblica. Questa verità presenta la creazione dell’uomo come
una speciale donazione da parte del Creatore, nella quale sono contenuti non
solo il fondamento e la fonte dell’essenziale dignità dell’essere umano -
uomo e donna - nel mondo creato, ma anche l’inizio della chiamata di tutt’e
due a partecipare alla vita intima di Dio stesso. Alla luce della rivelazione
creazione significa nello stesso tempo inizio della storia della salvezza.
Proprio in questo inizio il peccato si inscrive e si
configura come contrasto e negazione. Si può dire paradossalmente che il peccato presentato in Genesi (Gen
3) è la conferma della verità circa l’immagine e somiglianza di Dio
nell’uomo, se questa verità significa la libertà, cioè
la libera volontà, di cui l’uomo può usare scegliendo il bene, ma può anche
abusare scegliendo, contro la volontà di Dio, il male. Nel suo significato
essenziale, tuttavia, il peccato è negazione di ciò che Dio è - come creatore
- in relazione all’uomo e di ciò che Dio vuole, sin
dall’inizio e per sempre, per l’uomo. Creando l’uomo e la donna a propria
immagine e somiglianza, Dio vuole per loro la
pienezza del bene, ossia la felicità soprannaturale, che scaturisce dalla
partecipazione alla sua stessa vita. Commettendo il peccato l’uomo respinge
questo dono e contemporaneamente vuol diventare egli stesso "come Dio,
conoscendo il bene e il male" (Gen 3,5), cioè
decidendo del bene e del male indipendentemente da Dio, suo creatore. Il
peccato delle origini ha la sua "misura" umana, il suo metro
interiore nella libera volontà dell’uomo ed insieme porta in sé una certa
caratteristica "diabolica" ("Diabolicus" e lingua Graeca
= "divido, separo, calumnior"), come è
messo chiaramente in rilievo nel libro della Genesi (Gen 3,1-5). Il peccato
opera la rottura dell’unità originaria, di cui l’uomo godeva nello stato di
giustizia originale: l’unione con Dio come fonte dell’unità all’interno del
proprio "io", nel reciproco rapporto dell’uomo e della donna
("communio personarum") e, infine, nei confronti del mondo esterno,
della natura. La descrizione
biblica del peccato originale in Genesi (Gen 3) in un certo modo
"distribuisce i ruoli" che in esso hanno
avuto la donna e l’uomo. A ciò faranno riferimento ancora più tardi alcuni
passi della Bibbia, come, per esempio, la lettera paolina a Timoteo:
"Prima è stato formato Adamo e poi Eva; e non fu Adamo ad essere
ingannato, ma fu la donna" (1Tm 2,13-14). Non
c’è dubbio, tuttavia, che, indipendentemente da questa
"distribuzione delle parti" nella descrizione biblica, quel primo
peccato è il peccato dell’uomo, creato da Dio maschio e femmina. Esso
è anche il peccato dei "progenitori", al quale
è collegato il suo carattere ereditario. In questo senso lo chiamiamo
"peccato originale". Tale peccato,
come già è stato detto, non può essere compreso adeguatamente senza riferirsi
al mistero della creazione dell’essere umano - uomo e donna - a immagine e somiglianza di Dio. Per mezzo di tale
riferimento si può capire anche il mistero di quella
"non-somiglianza" con Dio, nella quale consiste il peccato e che si
manifesta nel male presente nella storia del mondo; di quella
"non-somiglianza" con Dio, che "solo è buono" (cf. Mt
19,17) ed è la pienezza del bene. Se questa "non-somiglianza" del
peccato con Dio, la stessa santità, presuppone la "somiglianza" nel
campo della libertà, della libera volontà, si può allora dire che proprio per
questa ragione la "non somiglianza" contenuta nel peccato è tanto
più drammatica e tanto più dolorosa. Bisogna anche
ammettere che Dio, come creatore e Padre, viene qui
toccato, "offeso" e, ovviamente, offeso nel cuore stesso di quella
donazione che appartiene all’eterno disegno di Dio nei riguardi dell’uomo. Nello stesso
tempo, però, anche l’essere umano - uomo e donna - viene
toccato dal male del peccato, di cui è autore. Il testo biblico di Genesi
(Gen 3) lo mostra con le parole che descrivono chiaramente la nuova
situazione dell’uomo nel mondo creato. Esso mostra la prospettiva della
"fatica" con cui l’uomo si procurerà i mezzi per vivere (cf. Gen
3,17-19), nonché quella dei grandi
"dolori" con i quali la donna partorirà i suoi figli (cf. Gen
3,16). Tutto ciò, poi, è segnato dalla necessità della morte, che costituisce
il termine della vita umana sulla terra. In questo modo l’uomo, come polvere,
"tornerà alla terra, perché da essa è stato
tratto": "Polvere tu sei e in polvere tornerai" (cf. Gen
3,19). Queste parole
trovano conferma di generazione in generazione. Esse non significano che
l’immagine e la somiglianza di Dio nell’essere umano, sia donna che uomo, è
stata distrutta dal peccato; significano, invece, che è stata
"offuscata" (cf. Origenis "In Gen.
hom.", 13, 4: PG 12, 234; S. Gregorii Nysseni "De virg.", 12:
S. Ch. 119, 404-419; S. Gregorii Nysseni "De
Beat.", VI: PG 44, 1272) e, in un certo senso, "diminuita".
Il peccato, infatti, "diminuisce" l’uomo, come
ricorda anche il Concilio Vaticano II (cf. "Gaudium et
Spes", 13). Se l’uomo, già per la sua stessa natura di
persona, è immagine e somiglianza di Dio, allora la sua grandezza e la sua
dignità si realizzano nell’alleanza con Dio, nell’unione con lui, nel tendere
a quella fondamentale unità che appartiene alla "logica" interiore
del mistero stesso della creazione. Questa unità corrisponde alla
profonda verità di tutte le creature dotate di intelligenza
e, in particolare, dell’uomo, il quale tra le creature del mondo visibile è
stato sin dall’inizio elevato, mediante l’eterna elezione da parte di Dio in
Gesù: "In Cristo... egli ci ha scelti prima della creazione del mondo...
nella carità, predestinandoci ad essere suoi figli adottivi per opera di Gesù
Cristo, secondo il beneplacito della sua volontà" (cf. Ef 1,4-6).
L’insegnamento biblico nel suo insieme ci consente di dire che la
predestinazione riguarda tutte le persone umane, uomini e donne, ciascuno e
ciascuna senza eccezione. "Egli ti dominerà" 10. La
descrizione biblica del libro della Genesi delinea
la verità circa le conseguenze del peccato dell’uomo come indica, altresì, il
turbamento di quell’originaria relazione tra l’uomo e la donna che
corrisponde alla dignità personale di ciascuno di essi. L’uomo, sia maschio
che femmina, è una persona e, dunque "la sola creatura che sulla terra
Dio abbia voluto per se stessa"; e nello stesso tempo proprio questa
creatura unica e irripetibile "non può
ritrovarsi se non mediante un dono sincero di sé" (cf. "Gaudium et
Spes", 24). Da qui prende inizio il rapporto di "comunione",
nella quale si esprimono l’"unità dei due" e la dignità personale
sia dell’uomo che della donna. Quando dunque leggiamo nella
descrizione biblica le parole rivolte alla donna: "Verso tuo marito sarà
il tuo istinto, ma egli ti dominerà" (Gen 3,16), scopriamo una rottura e
una costante minaccia proprio nei riguardi di questa "unità dei
due", che corrisponde alla dignità dell’immagine e della somiglianza di
Dio in ambedue. Tale minaccia risulta, però, più grave per la donna. Infatti, all’essere un dono sincero, e perciò al vivere
"per" l’altro subentra il dominio: "Egli ti dominerà".
Questo "dominio" indica il turbamento e la perdita della stabilità
di quella fondamentale eguaglianza, che nell’"unità dei due" possiedono l’uomo e la donna: e ciò è soprattutto a
sfavore della donna, mentre soltanto l’uguaglianza, risultante dalla dignità
di ambedue come persone, può dare ai reciproci rapporti il carattere di
un’autentica "communio personarum". Se la violazione di questa eguaglianza, che è insieme dono e diritto derivante
dallo stesso Dio creatore, comporta un elemento a sfavore della donna, nello
stesso tempo essa diminuisce anche la vera dignità dell’uomo. Tocchiamo qui
un punto estremamente sensibile nella dimensione di
quell’"ethos" che è inscritto originariamente dal Creatore già nel
fatto stesso della creazione di ambedue a sua immagine e somiglianza. Questa
affermazione di Genesi (Gen 3,16) è di una grande, significativa
portata. Essa implica un riferimento alla reciproca relazione dell’uomo e
della donna nel matrimonio. Si tratta del desiderio nato nel clima dell’amore
sponsale, che fa si che "il dono sincero di
sé" da parte della donna trovi risposta e completamento in un analogo "dono"
da parte del marito. Solamente in base a questo
principio tutt’e due, e in particolare la donna, possono
"ritrovarsi" come vera "unità dei due" secondo la dignità
della persona. L’unione matrimoniale esige il rispetto e il perfezionamento
della vera soggettività personale di tutti e due. La
donna non può diventare "oggetto" di "dominio" e di
"possesso" maschile. Ma le parole del
testo biblico riguardano direttamente il peccato originale e le sue durature
conseguenze nell’uomo e nella donna. Gravati dalla peccaminosità ereditaria,
essi portano in sé il costante "fomite del peccato", cioè la tendenza a intaccare quell’ordine morale, che
corrisponde alla stessa natura razionale ed alla dignità dell’uomo come
persona. Questa tendenza si esprime nella triplice concupiscenza, che il
testo apostolico precisa come concupiscenza degli occhi, concupiscenza della
carne e superbia della vita (cf. 1Gv 2,16). Le parole della Genesi, riportate
precedentemente (Gen 3,16), indicano in che modo
questa triplice concupiscenza, quale "fomite del peccato", graverà
sul reciproco rapporto dell’uomo e della donna. Quelle stesse
parole si riferiscono direttamente al matrimonio, ma indirettamente
raggiungono i diversi campi della convivenza sociale: le situazioni in cui la
donna rimane svantaggiata o discriminata per il fatto di essere
donna. La verità rivelata sulla creazione dell’uomo come maschio e femmina
costituisce il principale argomento contro tutte le
situazioni, che, essendo oggettivamente dannose, cioè ingiuste, contengono ed
esprimono l’eredità del peccato che tutti gli esseri umani portano in sé. I
libri della Sacra Scrittura confermano in diversi punti l’effettiva esistenza
di tali situazioni ed insieme proclamano la necessità di convertirsi, cioè di purificarsi dal male e di liberarsi dal peccato:
da ciò che reca offesa all’altro, che "sminuisce" l’uomo, non solo
colui a cui vien fatta offesa, ma anche colui che la reca. Tale è
l’immutabile messaggio della Parola rivelata da Dio. In ciò si esprime
l’"ethos" biblico sino alla fine (È appunto appellandosi alla legge
divina che i Padri del IV secolo reagirono
fortemente contro la discriminazione ancora in vigore, nei confronti della
donna, nel costume e nella legislazione civile del loro tempo. Cfr. S. Gregorii Nazianzeni "Or.", 37, 6: PG 36, 290; S.
Hieronymi "Ad Oceanum ep.", 77, 3: PL 22, 691; S. Ambrosii "De
instit. virg.", III, 16: PL 16, 309; S.
Augustini "Sermo 152", 2: PL 38, 735; "Sermo 392", 4: PL
39, 1711). Ai nostri tempi
la questione dei "diritti della donna" ha acquistato un nuovo
significato nel vasto contesto dei diritti della
persona umana. Illuminando questo programma, costantemente dichiarato e in
vari modi ricordato, il messaggio biblico ed evangelico custodisce la verità
sull’"unità" dei "due", cioè su quella
dignità e quella vocazione che risultano dalla specifica diversità e
originalità personale dell’uomo e della donna. Perciò, anche la giusta opposizione della donna di fronte a ciò che esprimono le parole bibliche: "Egli ti dominerà"
(Gen 3,16) non può a nessuna condizione condurre alla
"mascolinizzazione" delle donne. La donna - nel nome della
liberazione dal "dominio" dell’uomo - non può tendere ad
appropriarsi le caratteristiche maschili, contro la sua
propria "originalità" femminile. Esiste il fondato timore
che su questa via la donna non si
"realizzerà", ma potrebbe invece deformare e perdere ciò che
costituisce la sua essenziale ricchezza. Si tratta di
una ricchezza enorme. Nella descrizione biblica l’esclamazione del primo uomo
alla vista della donna creata è un’esclamazione di ammirazione
e di incanto, che attraversa tutta la storia dell’uomo sulla terra. Le risorse
personali della femminilità non sono certamente minori delle risorse della
mascolinità, ma sono solamente diverse. La donna dunque - come, del resto,
anche l’uomo - deve intendere la sua "realizzazione" come persona,
la sua dignità e vocazione sulla base di queste
risorse, secondo la ricchezza della femminilità, che ella ricevette nel
giorno della creazione e che eredita come espressione a lei peculiare
dell’"immagine e somiglianza di Dio". Solamente su questa via può
essere superata anche quell’eredità del peccato che è suggerita dalle parole
della Bibbia: "Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà".
Il superamento di questa cattiva eredità è, di generazione in generazione,
compito di ogni uomo, sia donna che uomo. Infatti, in tutti i casi nei quali l’uomo è responsabile
di quanto offende la dignità personale e la vocazione della donna, egli
agisce contro la propria dignità personale e la propria vocazione. Protoevangelo 11. Il libro
della Genesi attesta il peccato che è il male del "principio"
dell’uomo, le sue conseguenze che sin da allora gravano su tutto il genere
umano, ed insieme contiene il primo annuncio della vittoria sul male, sul
peccato. Lo provano le parole che leggiamo in Genesi 3,15
solitamente dette "Protoevangelo": "Io porrò inimicizia tra te
e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa
e tu le insidierai il calcagno". È significativo
che l’annuncio del redentore, del salvatore del mondo, contenuto in queste
parole, riguardi "la donna". Questa è nominata al primo posto nel
Protoevangelo come progenitrice di colui che sarà il
Redentore dell’uomo (cf.S. Irenaei "Adv. haereses",
III, 23, 7: S. Ch. 211, 462-465; V, 21, 1: S. Ch. 153,
260-265; S. Epiphanii "Panar.", III, 2,78: PG 42, 728-729; S.
Augustini "Enarr. in Ps. 103s." 4,
6: CCL 40, 1525). E, se la redenzione deve compiersi mediante la lotta contro
il male, per mezzo dell’"inimicizia" tra la stirpe della donna e la
stirpe di colui che, come "padre della
menzogna" (Gv 8,44), è il primo autore del peccato nella storia
dell’uomo, questa sarà anche l’inimicizia tra lui e la donna. In queste parole
si schiude la prospettiva di tutta la rivelazione, prima come preparazione al
Vangelo e poi come Vangelo stesso. In questa prospettiva si congiungono sotto
il nome della donna le due figure femminili: Eva e Maria. Le parole del
Protoevangelo, rilette alla luce del nuovo testamento, esprimono
adeguatamente la missione della donna nella lotta salvifica del Redentore
contro l’autore del male nella storia dell’uomo. Il confronto
Eva-Maria ritorna costantemente nel corso della riflessione sul deposito
della fede ricevuta dalla rivelazione divina ed è uno dei temi ripresi
frequentemente dai Padri, dagli scrittori ecclesiastici e dai teologi (cf. S.
Iustini "Dial. cum Thryph.", 100: PG 6,
709-712; S. Irenaei "Adv. haereses", III,
22, 4: S. Ch. 211, 438-445; V, 19, 1: S. Ch. 153, 248-251;
S. Cyrilli Hierosolymitani "Catech.", 12, 15: PG 33, 741; S.
Ioannis Chrysostomi "In Ps. 44,7": PG 55, 193; S. Ioannis
Damasceni "Hom. II in dorm. B. V. M.", 3: S. Ch. 80,
130- 135; Esychii Hierosolymitani "Sermo V in Deiparam": PG 93,
1464s.; Tertulliani "De carne Christi", 17: CCL 2, 904s.; S.
Hieronymi "Epist. 22", 21: PL 22, 408;
S. Augustini "Sermo 51", 2-3: PL 38, 335; "Sermo 232", 2:
PL 38, 1108; Card. I. H. Newman "A Letter to the rev. E. B. Pusey", Longman, London 1865; M. I. Scheeben "Handbuch
der Katholischen Dogmatik", V, 1 , 243-266; V, 2 Freiburg 1954],
306-499. Cfr.
"Lumen Gentium", 56). Di solito in questo paragone emerge a prima
vista una differenza, una contrapposizione. Eva, come
"madre di tutti i viventi" (Gen 3,20), è testimone del "principio"
biblico, in cui sono contenute le verità sulla creazione dell’uomo ad
immagine e somiglianza di Dio e la verità sul peccato originale. Maria
è testimone del nuovo "principio" e della "creatura
nuova" (cf. 2Cor 5,17). Anzi, ella stessa, come
la prima redenta nella storia della salvezza, è "creatura nuova": è
la "piena di grazia". È difficile comprendere perché le parole del
Protoevangelo mettano così fortemente in risalto la "donna" se non
si ammette che in lei ha il suo inizio la nuova e definitiva alleanza di Dio
con l’umanità, l’alleanza nel sangue redentore di Cristo. Essa ha inizio con
una donna, la "donna", nell’annunciazione a Nazaret. Questa è l’assoluta novità del Vangelo: altre volte nell’antico
testamento Dio, per intervenire nella storia del suo popolo, si era rivolto a
delle donne, come alla madre di Samuele e di Sansone; ma per stipulare la sua
alleanza con l’umanità si era rivolto solo a degli uomini: Noè, Abramo, Mosè.
All’inizio della nuova alleanza, che deve essere eterna e irrevocabile, c’è
la donna: la Vergine di Nazaret. Si tratta di un segno indicativo che
"in Gesù Cristo" "non c’è più uomo né donna" (Gal 3,28).
In lui la reciproca contrapposizione tra l’uomo e la donna - come retaggio
del peccato originale - viene essenzialmente superata.
"Tutti voi siete uno in Cristo Gesù",
scriverà l’Apostolo (Gal 3,28). Queste parole
trattano di quell’originaria "unità dei due" che è legata alla
creazione dell’uomo, come maschio e femmina, ad immagine e somiglianza di
Dio, sul modello di quella perfettissima comunione di persone che è Dio stesso. Le parole paoline costatano che il mistero
della redenzione dell’uomo in Gesù Cristo, Figlio di Maria, riprende e
rinnova ciò che nel mistero della creazione corrispondeva all’eterno disegno
di Dio creatore. Proprio per questo, il giorno della
creazione dell’uomo come maschio e femmina "Dio vide quanto aveva fatto,
ed ecco, era cosa molto buona" (Gen 1,31). La redenzione
restituisce, in un certo senso, alla sua stessa radice, il bene che è stato
essenzialmente "sminuito" dal peccato e dal suo retaggio nella
storia dell’uomo. La
"donna" del Protoevangelo è inserita nella
prospettiva della redenzione. Il confronto Eva-Maria si può intendere
anche nel senso che Maria assume in se stessa e abbraccia il mistero della
"donna", il cui inizio è Eva, "la
madre di tutti i viventi" (Gen 3,20): prima di tutto lo assume e lo
abbraccia all’interno del mistero di Cristo - "nuovo ed ultimo
Adamo" (cf. 1Cor 15,45) -, il quale ha assunto nella propria persona la
natura del primo Adamo. L’essenza della nuova alleanza consiste nel fatto che
il Figlio di Dio, consostanziale all’eterno Padre, diventa uomo: accoglie
l’umanità nell’unità della persona divina del Verbo. Colui
che opera la redenzione è al tempo stesso un vero uomo. Il mistero
della redenzione del mondo presuppone che Dio-Figlio abbia assunto l’umanità
come eredità di Adamo, divenendo simile a lui e ad
ogni uomo in tutto, "escluso il peccato" (Eb 4,15). In questo modo
egli ha "svelato anche pienamente l’uomo all’uomo e gli ha fatto nota la
sua altissima vocazione", come insegna il Concilio Vaticano II
("Gaudium et Spes", 22). In un certo senso, lo ha aiutato a
riscoprire "chi è l’uomo" (cf. Sal 8,5). In tutte le
generazioni, nella Tradizione della fede e della riflessione cristiana su di essa, l’accostamento Adamo-Cristo spesso si accompagna con
quello Eva-Maria. Se Maria è descritta anche come "nuova
Eva", quali possono essere i significati di questa analogia? Sono
certamente molteplici. Occorre, in particolare, soffermarsi su quel
significato che vede in Maria la rivelazione piena di tutto ciò che è
compreso nella parola biblica "donna": una rivelazione commisurata
al mistero della redenzione. Maria significa, in un certo senso, oltrepassare
quel limite di cui parla il libro della Genesi (Gen 3,16) e riandare verso
quel "principio" in cui si ritrova la "donna" così come fu voluta nella creazione, quindi nell’eterno pensiero di
Dio, nel seno della Santissima Trinità. Maria è "il nuovo
principio" della dignità e vocazione della donna, di tutte le donne e di
ciascuna (cf. S. Ambrosii "De instit. virg.",
V, 33: PL 16, 313). Chiave per la
comprensione di ciò possono essere, in particolare,
le parole poste dall’evangelista sulle labbra di Maria dopo l’Annuciazione,
durante la sua visita a Elisabetta: "Grandi cose ha fatto in me
l’Onnipotente" (Lc 1,49). Esse riguardano certamente il concepimento del
Figlio, che è "Figlio dell’Altissimo" (Lc 1,32),
il "santo" di Dio; insieme, però, esse possono significare anche la
scoperta dalla propria umanità femminile. Grandi cose ha
fatto in me": questa è la scoperta di tutta la ricchezza, di tutta la
risorsa personale della femminilità, di tutta l’eterna originalità della
"donna", così come Dio la volle, persona per se stessa, e che si
ritrova contemporaneamente "mediante un dono sincero di sé". Questa scoperta
si collega con la chiara consapevolezza del dono, dell’elargizione da parte
di Dio. Il peccato già al "principio" aveva offuscato questa
consapevolezza, in un certo senso l’aveva soffocata, come indicano le parole
della prima tentazione ad opera del "padre
della menzogna" (cf. Gen 3,1-5). All’avvento della
"pienezza del tempo" (cf. Gal 4,4), mentre comincia a
compiersi nella storia dell’umanità il mistero della redenzione, questa
consapevolezza irrompe in tutta la sua forza nelle parole della biblica
"donna" di Nazaret. In Maria, Eva riscopre quale
è la vera dignità della donna, dell’umanità femminile. Questa scoperta deve
continuamente giungere al cuore di ciascuna donna e dare forma alla sua
vocazione e alla sua vita. V. Gesù Cristo "Si meravigliavano che stesse a discorrere con una donna" 12. Le parole del
Protoevangelo nel libro della Genesi ci permettono di trasferirci nell’ambito
del Vangelo. La redenzione dell’uomo, là annunciata, qui diventa realtà nella
persona e nella missione di Gesù Cristo, nelle quali riconosciamo anche ciò
che la realtà della redenzione significa per la dignità e la vocazione della
donna. Questo significato ci viene maggiormente
chiarito dalle parole di Cristo e da tutto il suo atteggiamento verso le
donne, che è estremamente semplice e, proprio per questo, straordinario, se
visto sullo sfondo del suo tempo: è un atteggiamento caratterizzato da una
grande trasparenza e profondità. Diverse donne compaiono nel corso della
missione di Gesù di Nazaret, e l’incontro con ciascuna di esse
è una conferma della "novità di vita" evangelica, di cui già si è
parlato. È universalmente
ammesso - persino da parte di chi si pone in atteggiamento critico di fronte
al messaggio cristiano - che Cristo si sia fatto
davanti ai suoi contemporanei promotore della vera dignità della donna e
della vocazione corrispondente a questa dignità. A volte ciò provocava
stupore, sorpresa, spesso al limite dello scandalo: "Si meravigliavano
che stesse a discorrere con una donna" (Gv
4,27), perché questo comportamento si distingueva da quello dei suoi
contemporanei. "Si meravigliavano", anzi, gli stessi discepoli di
Cristo. Il fariseo, nella cui casa la donna peccatrice andò per ungere con
olio profumato i piedi di Gesù, "pensò tra di
sé: "Se costui fosse un profeta, saprebbe chi e che specie di donna è
colei che lo tocca: è una peccatrice"" (Lc 7,39). Di sgomento
ancora più grande, o addirittura di "santo sdegno", dovevano
riempire gli ascoltatori soddisfatti di sé le parole di Cristo: "I
pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio" (Mt
21,31). Colui
che
parlava ed agiva così faceva capire che "i misteri del regno" gli
erano noti fino in fondo. Egli anche "sapeva quello che c’è in ogni
uomo" (Gv 2,25), nel suo intimo, nel suo "cuore". Era
testimone dell’eterno disegno di Dio nei riguardi dell’uomo
da lui creato a sua immagine e somiglianza, come uomo e donna. Era anche
consapevole fino in fondo delle conseguenze del peccato, di quel
"mistero d’iniquità" operante nei cuori umani come amaro frutto
dell’offuscamento dell’immagine divina. Quanto è significativo
il fatto che, nel fondamentale colloquio sul matrimonio e sulla sua indissolubilità,
Gesù, davanti ai suoi interlocutori, che erano per ufficio i conoscitori
della legge, "gli scribi", faccia riferimento al
"principio". La questione posta è quella del diritto
"maschile" di "ripudiare la propria moglie
per qualsiasi motivo" (Mt 19,3); e, dunque, anche del diritto della
donna, della sua giusta posizione nel matrimonio, della sua dignità. Gli
interlocutori ritengono di avere a loro favore la legislazione mosaica
vigente in Israele: "Mosè ha ordinato di darle l’atto di ripudio e di mandarla
via" (Mt 19,7). Gesù risponde: "Per la durezza del vostro cuore
Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli, ma da principio non fu cosi" (Mt 19,8). Gesù s’appella al
"principio", alla creazione dell’uomo come maschio e femmina e a
quell’ordinamento di Dio, che si fonda sul fatto che tutt’e due sono stati creati "a sua immagine e
somiglianza". Perciò, quando l’uomo "lascia suo padre e sua
madre" unendosi a sua moglie, così che i due diventino
"una carne sola", rimane in vigore la legge che proviene da Dio
stesso: "Quello dunque che Dio ha congiunto, l’uomo non lo separi"
(Mt 19,6). Il principio di
questo "ethos", che sin dall’inizio è stato inscritto nella realtà
della creazione, viene ora confermato da Cristo
contro quella tradizione, che comportava la discriminazione della donna. In questa tradizione il maschio "dominava", non tenendo
adeguatamente conto della donna e di quella dignità, che l’"ethos"
della creazione ha posto alla base dei reciproci rapporti delle due persone
unite in matrimonio. Questo "ethos" viene
ricordato e confermato dalle parole di Cristo: è l’"ethos" del
Vangelo e della redenzione. Le donne del Vangelo 13. Scorrendo le pagine del Vangelo, passa davanti ai nostri occhi un
gran numero di donne, di diversa età e di diverso stato. Incontriamo
donne colpite da malattia o da sofferenze fisiche, come la donna che aveva
"uno spirito che la teneva inferma, era cura e non poteva drizzarsi in
nessun modo" (cf. Lc 13,11), o come la suocera di Simone che era "a
letto con la febbre" (Mc 1,30), o come la donna "affetta da
emorragia" (cf. Mc 5,25-34), che non poteva toccare nessuno, perché si
riteneva che il suo tocco rendesse l’uomo "impuro". Ciascuna di
loro fu guarita, e l’ultima, l’emorroissa, che toccò il mantello di Gesù
"tra la folla" (Mc 5,27), fu da lui lodata per la grande fede: "La tua fede ti ha salvata" (Mc
5,34). C’è poi la figlia di Giairo, che Gesù fa tornare in vita, rivolgendosi
a lei con tenerezza: "Fanciulla, io ti dico,
alzati!" (Mc 5,41). E ancora c’è la vedova di Naim, alla quale Gesù fa
tornare in vita l’unico figlio, accompagnando il suo gesto con un’espressione
di affettuosa pietà: "Ne ebbe compassione e le
disse: "Non piangere"" (Lc 7,13). E
infine c’è la Cananea, una donna che merita da parte di Cristo parole di speciale
apprezzamento per la sua fede, la sua umiltà e per quella grandezza di
spirito, di cui è capace soltanto un cuore di madre: "Donna, davvero
grande è la tua fede! Ti sia fatto come desideri" (Mt 15,28). La donna
cananea chiedeva la guarigione della figlia. A volte le donne,
che Gesù incontrava e che da lui ricevevano tante
grazie, lo accompagnavano, mentre con gli apostoli peregrinava attraverso
città e paesi, annunciando il Vangelo del regno di Dio; e "li
assistevano con i loro beni". Il Vangelo nomina tra loro Giovanna moglie
dell’amministratore di Erode, Susanna e "molte
altre" (cf. Lc 8,1-3). A volte figure di
donne compaiono nelle parabole, con le quali Gesù di Nazaret illustrava ai
suoi ascoltatori la verità sul regno di Dio. Così è nelle
parabole della dramma perduta (cf. Lc 15,8-10), del lievito (cf. Mt 13,33), delle vergini sagge e delle vergini stolte (cf.
Mt 25,1-3). Particolarmente eloquente è il racconto dell’obolo della vedova.
Mentre i "ricchi... gettavano le loro offerte nel tesoro..., una vedova povera vi gettò due spiccioli". Allora
Gesù disse: "Questa vedova, povera, ha messo più di tutti..., nella sua miseria ha dato tutto quanto aveva per
vivere" (Lc 21,1-4). In questo modo Gesù la presenta come modello per
tutti e la difende, poiché, nel sistema socio-giuridico di allora, le vedove erano esseri totalmente indifesi (cf. Lc 1,1-7). In tutto
l’insegnamento di Gesù, come anche nel suo comportamento, nulla si incontra che rifletta la discriminazione, propria del
suo tempo, della donna. Al contrario, le sue parole e le sue opere esprimono
sempre il rispetto e l’onore dovuto alla donna. La donna ricurva viene chiamata "figlia di Abramo" (Lc 1,1- 16):
mentre in tutta la Bibbia il titolo di "figlio di Abramo" è
riferito solo agli uomini. Percorrendo la via dolorosa verso il Golgota, Gesù
dirà alle donne: "Figlie di Gerusalemme, non piangete su di me" (Lc
23,28). Questo modo di parlare delle donne e alle donne, nonché
il modo di trattarle, costituisce una chiara "novità" rispetto al
costume allora dominante. Ciò diventa
ancora più esplicito nei riguardi di quelle donne
che l’opinione corrente indicava con disprezzo come peccatrici, pubbliche
peccatrici e adultere. Ecco la Samaritana, alla quale lo stesso Gesù dice:
"Infatti hai avuto cinque mariti, e quello che
hai ora non è tuo marito". Ed essa, sentendo
che egli conosceva i segreti della sua vita, riconosce in lui il Messia e
corre ad annunciarlo ai suoi compaesani. Il dialogo, che precede questo
riconoscimento, è uno dei più belli del Vangelo (cf. Gv 4,4-27). Ecco poi una
pubblica peccatrice, che, nonostante la condanna da parte dell’opinione
comune, entra nella casa del fariseo per ungere con olio profumato i piedi di
Gesù. All’ospite che si scandalizzava di questo
fatto egli dirà di lei: "Le sono perdonati i suoi molti peccati, perché
ha molto amato" (cf. Lc 7,37-47). Ecco,
infine, una situazione che è forse la più eloquente: una donna sorpresa in
adulterio è condotta da Gesù. Alla domanda provocatoria:
"Ora Mosè, nella legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa,
tu che ne dici?", Gesù risponde: "Chi di voi è senza peccato,
scagli per primo la pietra contro di lei". La forza di verità,
contenuta in questa risposta, è così grande che "se ne
andarono uno per uno, cominciando dai più anziani". Rimangono
solo Gesù e la donna. "Dove sono? Nessuno ti ha
condannata?". "Nessuno, Signore". "Neanch’io ti condanno, va’ e d’ora in poi non peccare più (cf. Gv
8,3-11). Questi episodi
costituiscono un quadro d’insieme molto trasparente. Cristo è colui che "sa che cosa c’è nell’uomo" (cf. Gv
2,25), nell’uomo e nella donna. Conosce la dignità dell’uomo, il suo pregio
agli occhi di Dio. Egli stesso, il Cristo, è la conferma definitiva di questo
pregio. Tutto ciò che dice e che fa ha definitivo
compimento nel mistero pasquale della redenzione. L’atteggiamento di
Gesù nei riguardi delle donne, che incontra lungo la strada del suo servizio
messianico, è il riflesso dell’eterno disegno di Dio, che creando ciascuna di
loro, la sceglie e la ama in Cristo (cf. Ef 1,1-5). Ciascuna, perciò, è
quella "sola creatura in terra che Dio ha voluto per se stessa".
Ciascuna dal "principio" eredita la dignità di persona proprio come
donna. Gesù di Nazaret conferma questa dignità, la ricorda, la rinnova, ne fa
un contenuto del Vangelo e della redenzione, per la quale
è inviato nel mondo. Bisogna, dunque, introdurre nella dimensione del mistero
pasquale ogni parola e ogni gesto di Cristo nei confronti della donna. In
questo modo tutto si spiega compiutamente. La donna sorpresa in adulterio 14. Gesù entra
nella situazione concreta e storica della donna, situazione che è gravata
dall’eredità del peccato. Questa eredità si esprime tra l’altro nel costume
che discrimina la donna in favore dell’uomo ed è radicata anche dentro di
lei. Da questo punto di vista l’episodio della donna
"sorpresa in adulterio" (cf. Gv 8,3-11) sembra essere
particolarmente eloquente. Alla fine Gesù le dice: "Non peccare
più", ma prima egli provoca la consapevolezza del peccato negli uomini
che l’accusano per lapidarla, manifestando così quella sua profonda capacità
di vedere secondo verità le coscienze e le opere umane. Gesù sembra dire agli
accusatori: questa donna con tutto il suo peccato non è forse anche, e prima di tutto, una conferma delle vostre trasgressioni, della
vostra ingiustizia "maschile", dei vostri abusi? È questa una
verità valida per tutto il genere umano. Il fatto riportato nel Vangelo di
Giovanni si può ripresentare in innumerevoli situazioni analoghe in ogni
epoca della storia. Una donna viene lasciata sola, è
esposta all’opinione pubblica con "il suo peccato", mentre dietro
questo "suo" peccato si cela un uomo come peccatore, colpevole per
il "peccato altrui", anzi corresponsabile di esso. Eppure, il suo peccato sfugge all’attenzione, passa sotto
silenzio: appare non responsabile per il "peccato altrui"! A volte
si fa addirittura accusatore, come nel caso descritto, dimentico del proprio
peccato. Quante volte, in modo simile, la donna paga per il proprio peccato
(può darsi che sia lei, in certi casi, colpevole per il peccato dell’uomo,
come "peccato altrui"), ma paga essa sola, e paga da sola! Quante
volte essa rimane abbandonata con la sua maternità, quando l’uomo, padre del
bambino, non vuole accettarne la responsabilità? E accanto alle numerose
"madri nubili" delle nostre società, bisogna prendere in
considerazione anche tutte quelle che molto spesso, subendo varie pressioni,
pure da parte dell’uomo colpevole, "si liberano" del
bambino prima della nascita. "Si liberano": ma a quale
prezzo? L’odierna opinione pubblica tenta in diversi modi di
"annullare" il male di questo peccato; normalmente, però, la
coscienza della donna non riesce a dimenticare di aver tolto la vita al
proprio figlio, perché essa non riesce a cancellare la disponibilità ad
accogliere la vita, inscritta nel suo ethos dal "principio". È significativo l’atteggiamento di Gesù nel fatto descritto
in Giovanni (Gv 8,3-11). Forse in pochi momenti come in
questo si manifesta la sua potenza - la potenza della verità - nei riguardi delle
coscienze umane. Gesù è tranquillo, raccolto, pensieroso. La sua consapevolezza, qui come nel colloquio con i farisei (cf.
Mt 19,3-9), non è forse in contatto col mistero del "principio",
quando l’uomo fu creato maschio e femmina, e la
donna fu affidata all’uomo con la sua diversità femminile, ed anche con la
sua potenziale maternità? Anche l’uomo fu affidato
dal Creatore alla donna. Furono reciprocamente affidati l’uno
all’altro come persone fatte ad immagine e somiglianza di Dio stesso. In tale
affidamento è la misura dell’amore, dell’amore sponsale: per diventare
"un dono sincero" l’uno per l’altro, bisogna che ciascuno dei due
si senta responsabile del dono. Questa misura è destinata a tutt’e due - uomo e donna - sin dal "principio". Dopo
il peccato originale operano nell’uomo e nella donna
forze opposte, a causa della triplice concupiscenza, "fomite del
peccato". Esse agiscono nell’uomo dal profondo. Per questo Gesù nel
discorso della montagna dirà: "Chiunque guarda una donna per
desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore" (Mt 5,28).
Queste parole, rivolte direttamente all’uomo, mostrano la verità fondamentale
della sua responsabilità nei confronti della donna: per la sua dignità, per
la sua maternità, per la sua vocazione. Ma esse riguardano
indirettamente anche la donna. Cristo faceva tutto il possibile perché -
nell’ambito dei costumi e dei rapporti sociali di quel tempo - le donne
ritrovassero nel suo insegnamento e nel suo agire la propria soggettività e
dignità. In base all’eterna "unità dei due", questa dignità dipende
direttamente dalla stessa donna, quale soggetto per sé responsabile, e viene
nello stesso tempo "data come compito" all’uomo. Coerentemente
Cristo si appella alla responsabilità dell’uomo. Nella presente meditazione
sulla dignità e vocazione della donna, oggi bisogna riferirsi necessariamente
all’impostazione che incontriamo nel Vangelo. La dignità della donna e la sua
vocazione - come, del resto, quelle dell’uomo - trovano la loro eterna
sorgente nel cuore di Dio e, nelle condizioni temporali dell’esistenza umana,
sono strettamente connesse con l’"unità dei due". Perciò ciascun
uomo deve guardare dentro di sé e vedere se colei che gli è affidata come
sorella nella stessa umanità, come sposa, non sia diventata nel suo cuore
oggetto di adulterio; se colei che, in vari modi, è
il co-soggetto della sua esistenza nel mondo, non sia diventata per lui
"oggetto": oggetto di godimento, di sfruttamento. Custodi del messaggio evangelico 15. Il modo di
agire di Cristo, il Vangelo delle sue opere e delle sue parole, è una
coerente protesta contro ciò che offende la dignità
della donna. Perciò le donne che si trovano vicine a Cristo riscoprono se stesse nella verità che egli "insegna" e che
egli "fa", anche quando questa è la verità sulla loro
"peccaminosità". Da questa verità esse si sentono
"liberate", restituite a se stesse: si sentono amate di "amore
eterno", di un amore che trova diretta espressione in Cristo stesso. Nel
raggio d’azione di Cristo la loro posizione sociale si trasforma. Sentono che
Gesù parla con loro di questioni delle quali, a quei tempi, non si discuteva
con una donna. L’esempio, in un certo senso più significativo
al riguardo, è quello della Samaritana presso il pozzo di Sichem. Gesù - il
quale sa che è peccatrice, e di questo le parla - discorre con lei dei più
profondi misteri di Dio. Le parla del dono infinito dell’amore di Dio, che è
come "sorgente di acqua che zampilla per la
vita eterna" (Gv 4,14). Le parla di Dio che è Spirito e della vera
adorazione, che il Padre ha diritto di ricevere in spirito e verità (cf. Gv
4,24). Le rivela, infine, di essere il Messia promesso ad Israele (cf. Gv
4,26). È questo un
evento senza precedenti: quella donna, e per di più
"donna-peccatrice", diventa "discepola" di Cristo; anzi,
una volta istruita, annuncia il Cristo agli abitanti di Samaria, così che
essi pure lo accolgono con fede (cf. Gv 4,39-42). Un evento senza precedenti,
se si tiene presente il modo comune di trattare le donne proprio di quanti insegnavano in Israele, mentre nel modo di agire di Gesù
di Nazaret un simile evento si fa normale. A questo proposito, meritano un
particolare ricordo anche le sorelle di Lazzaro: "Gesù voleva molto bene
a Marta, a sua sorella Maria e a Lazzaro" (cf. Gv 11,5). Maria
"ascoltava la parola" di Gesù: quando va a trovarli in casa, egli
stesso definisce il comportamento di Maria come "la parte migliore"
rispetto alla preoccupazione di Marta per le faccende domestiche (cf. Lc
10,38-42). In un’altra occasione anche Marta - dopo la morte di Lazzaro -
diventa interlocutrice di Cristo, ed il colloquio riguarda le più profonde
verità della rivelazione e della fede. "Signore, se tu fossi stato qui,
mio fratello non sarebbe morto" - "Tuo fratello risusciterà" -
"So che risusciterà nell’ultimo giorno". Le disse
Gesù: "Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se
muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno. Credi
tu questo?" - "Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, Figlio
di Dio, che deve venire al mondo" (Gv 11,21-27). Dopo questa professione
di fede Gesù risuscita Lazzaro. Anche il colloquio
con Marta è uno dei più importanti del Vangelo. Cristo parla con
le donne delle cose di Dio, ed esse le comprendono: un’autentica risonanza
della mente e del cuore, una risposta di fede. E
Gesù per questa risposta spiccatamente "femminile" esprime
apprezzamento e ammirazione, come nel caso della donna cananea (cf. Mt
15,28). A volte egli propone come esempio questa fede viva, permeata
dall’amore: insegna, dunque, prendendo spunto da questa risposta femminile
della mente e del cuore. Così avviene nel caso di quella donna
"peccatrice" il cui modo di agire, in casa del fariseo, è assunto
da Gesù come punto di partenza per spiegare la verità sulla remissione dei
peccati: "Le sono perdonati i suoi molti peccati, poiché ha molto amato.
Invece quello a cui si perdona poco, ama poco" (Lc 7,47). In occasione
di un’altra unzione, Gesù prende la difesa, davanti ai discepoli e in
particolare davanti a Giuda, della donna e della sua azione: "Perché
infastidite questa donna? Essa ha compiuto una azione
buona verso di me... Versando questo olio sul mio corpo lo ha fatto in vista
della sepoltura. In verità vi dico: dovunque sarà predicato questo Vangelo,
nel mondo intero, sarà detto ciò che essa ha fatto, in ricordo di lei"
(Mt 26,6-13). In realtà, i
Vangeli non solo descrivono ciò che ha compiuto quella donna a Betania, nella
casa di Simone il lebbroso, ma mettono anche in rilievo
come, al momento della prova definitiva e determinante per tutta la missione
messianica di Gesù di Nazaret, ai piedi della croce, si siano trovate, prime
fra tutti, le donne. Degli apostoli solo Giovanni è rimasto fedele. Le donne,
invece, sono molte. Non solo c’erano la Madre di Cristo e la "sorella di
sua madre, Maria di Cleofa e Maria di Magdala" (Gv 19,25), ma
"molte donne che stavano ad osservare da lontano; esse avevano seguito
Gesù dalla Galilea per servirlo" (Mt 27,55). Come si vede, in questa che
fu la più dura prova della fede e della fedeltà, le donne si sono dimostrate
più forti degli apostoli: in questi momenti di pericolo quelle che
"amano molto" riescono a vincere la paura. Prima c’erano state le
donne sulla via dolorosa, "che si battevano il petto e facevano lamenti
su di lui" (Lc 23,27). Prima ancora c’era stata la moglie di Pilato, che
aveva avvertito il proprio marito: "Non avere a che fare con quel
giusto; perché oggi fui molto turbata in sogno, per causa sua" (Mt
27,19). Prime testimoni della risurrezione 16. Sin
dall’inizio della missione di Cristo la donna mostra verso di lui e verso il
suo mistero una speciale sensibilità che corrisponde a
una caratteristica della sua femminilità. Occorre dire, inoltre, che ciò
trova particolare conferma in relazione al mistero
pasquale, non solo al momento della croce, ma anche all’alba della
risurrezione. Le donne sono le prime presso la tomba. Sono le prime a
trovarla vuota. Sono le prime ad udire: "Non è qui. È risorto, come
aveva detto" (Mt 28,6). Sono le prime a stringergli i piedi (Mt 28,9).
Sono anche chiamate per prime ad annunciare questa verità agli apostoli (cf.
Mt 28,1-10; Lc 24,8-11). Il Vangelo di Giovanni (cf. anche Mc 16,9) mette in rilievo il ruolo particolare di Maria di Magdala.
È la prima ad incontrare il Cristo risorto. All’inizio crede che sia il
custode del giardino: lo riconosce soltanto quando egli la chiama per nome.
"Gesù le disse: "Marià". Essa allora,
voltatasi verso di lui, gli disse in ebraico: "Rabbuni!", che
significa: "Maestro". Gesù le disse:
"Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre, ma va’ dai
miei fratelli e di’ loro: Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio
vostro". Maria di Magdala andò subito ad annunciare ai discepoli:
"Ho visto il Signore" e anche ciò che le aveva detto"
(Gv 20,16-18). Per questo essa venne anche chiamata "l’ apostola degli
apostoli" (Rabani Mauri "De vita beatae Mariae Magdalenae",
XXVII: "Salvator... ascensionis suae eam ad apostolos istituit
apostolam" . "Facta est Apostolorum apostola, per
hoc quod ei committitur ut resurrectione dominicam discipulis
annuntiet": In Ioannem Evangelistam expositio, C. XX. L. III, 6 , X, 629). Maria di Magdala fu la testimone oculare del Cristo risorto prima degli apostoli
e, per tale ragione, fu anche la prima a rendergli testimonianza
davanti agli apostoli. Questo evento, in un certo senso,
corona tutto ciò che è stato detto in precedenza sull’affidamento delle
verità divine da parte di Cristo alle donne, al pari degli uomini. Si
può dire che in questo modo si sono compiute le parole del profeta: "Io
effonderò il mio spirito sopra ogni uomo, e diverranno profeti i vostri figli
e le vostre figlie" (Gl 3,1). Nel cinquantesimo giorno dopo la
risurrezione di Cristo, queste parole trovano ancora una
volta conferma nel cenacolo di Gerusalemme, durante la discesa dello
Spirito Santo, il Paraclito (cf. At 2,17). Quanto è stato
detto finora circa l’atteggiamento di Cristo nei riguardi delle donne
conferma e chiarisce nello Spirito Santo la verità sulla eguaglianza
dei due, uomo e donna. Si deve parlare di un’essenziale "parità":
poiché tutt’e due - la donna come l’uomo - sono creati ad immagine e
somiglianza di Dio, tutt’e due sono suscettibili in eguale misura
dell’elargizione della verità divina e dell’amore nello Spirito Santo. Ambedue
accolgono le sue "visite" salvifiche e santificanti. Il fatto di essere uomo o donna non comporta qui nessuna
limitazione, così come non limita per nulla quella azione salvifica e
santificante dello Spirito nell’uomo il fatto di essere giudeo o greco,
schiavo o libero, secondo le ben note parole dell’Apostolo: "Poiché
tutti voi siete uno in Cristo Gesù" (Gal 3,28). Questa unità non annulla
la diversità. Lo Spirito Santo, che opera una tale unità nell’ordine
soprannaturale della grazia santificante, contribuisce in egual misura al
fatto che "diventano profeti i vostri figli" e che lo diventano
anche "le vostre figlie". "Profetizzare" significa
esprimere con la parola e con la vita "le grandi opere di Dio" (cf.
At 2,11), conservando la verità e l’originalità di ogni
persona, sia donna che uomo. L’"eguaglianza" evangelica, la
"parità" della donna e dell’uomo nei riguardi delle "grandi
opere di Dio", quale si è manifestata in modo così limpido nelle opere e
nelle parole di Gesù di Nazaret, costituisce la base più evidente della
dignità e della vocazione della donna nella Chiesa e nel mondo. Ogni
vocazione ha un senso profondamente personale e profetico. Nella vocazione
così intesa ciò che è personalmente femminile raggiunge una nuova misura: è
la misura delle "grandi opere di Dio", delle quali la donna diventa
soggetto vivente ed insostituibile testimone. VI. Maternità-Verginità Due dimensioni della vocazione della donna 17. Dobbiamo ora
rivolgere la nostra meditazione alla verginità e alla maternità, come due dimensioni
particolari nella realizzazione della personalità
femminile. Alla luce del Vangelo, esse acquistano la
pienezza del loro senso e valore in Maria, che come vergine divenne Madre del
Figlio di Dio. Queste due dimensioni della vocazione femminile si sono
in lei incontrate e congiunte in modo eccezionale, così che l’una non ha
escluso l’altra, ma l’ha mirabilmente completata. La descrizione
dell’annunciazione nel Vangelo di Luca indica chiaramente che ciò sembrava
impossibile alla Vergine di Nazaret. Quando si sente dire: "Concepirai
un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù", ella
subito chiede: "Come avverrà questo? Non conosco uomo" (Lc
1,33-34). Nell’ordine comune delle cose la maternità è frutto della reciproca
"conoscenza" dell’uomo e della donna nell’unione matrimoniale.
Maria, ferma nel proposito della propria verginità, pone la domanda al divino
messaggero, e ne ottiene la spiegazione: "Lo
Spirito Santo scenderà su di te"; la tua maternità non sarà conseguenza
di una "conoscenza" matrimoniale, ma sarà opera dello Spirito
Santo, e la "potenza dell’Altissimo" stenderà la sua
"ombra" sul mistero del concepimento e della nascita del Figlio.
Come Figlio dell’Altissimo egli ti viene dato
esclusivamente da Dio, nel modo conosciuto da Dio. Maria, dunque, ha
mantenuto il suo verginale "Non conosco uomo" (cf. Lc 1,34) e, al
tempo stesso, è diventata Madre. La verginità e la maternità coesistono in
lei: non si escludono reciprocamente e non si pongono dei limiti. Anzi, la
persona della Madre di Dio aiuta tutti - specialmente tutte le donne - a
scorgere in quale modo queste due dimensioni e queste due strade della
vocazione della donna, come persona, si spieghino e
si completino reciprocamente. Maternità 18. Per prender
parte a questo "scorgere", occorre ancora una volta approfondire la
verità sulla persona umana, ricordata dal Concilio Vaticano II. L’uomo - sia
il maschio che la femmina - è l’unico essere nel mondo che Dio abbia voluto per se stesso: è una persona, è un soggetto
che decide di sé. Al tempo stesso, l’uomo "non può trovarsi pienamente
se non mediante un dono sincero di sé" ("Gaudium et Spes",
24). È stato già detto che questa descrizione, anzi, in un certo senso,
questa definizione della persona corrisponde alla fondamentale verità biblica
circa la creazione dell’uomo - uomo e donna - a
immagine e somiglianza di Dio. Questa non è un’interpretazione puramente
teorica, o una definizione astratta, poiché essa indica in modo essenziale il
senso dell’essere uomo, mettendo in rilievo il
valore del dono di sé, della persona. In questa visione della persona è
contenuta anche l’essenza di quell’"ethos"
che, collegandosi alla verità della creazione, sarà sviluppato pienamente dai
libri della rivelazione e, in particolare, dai Vangeli. Questa verità sulla
persona apre, inoltre, la strada ad una piena comprensione della maternità
della donna. La maternità è frutto dell’unione matrimoniale di un uomo e di
una donna, di quella "conoscenza" biblica che corrisponde
all’"unione dei due nella carne" (cf. Gen 2,24), e in questo modo
essa realizza - da parte della donna - uno speciale "dono di sé"
come espressione di quell’amore sponsale col quale gli sposi si uniscono tra
loro così strettamente da costituire "una sola carne". La "conoscenza"
biblica si realizza secondo la verità della persona solo quando il reciproco
dono di sé non viene deformato né dal desiderio
dell’uomo di diventare "padrone" della sua sposa ("Egli ti
dominerà"), né dal chiudersi della donna nei propri istinti ("Verso
tuo marito sarà il tuo istinto") (cf. Gen 3,16). Il reciproco dono
della persona nel matrimonio si apre verso il dono di una nuova vita, di un
nuovo uomo, che è anche persona a somiglianza dei suoi genitori. La maternità
implica sin dall’inizio una speciale apertura verso la nuova persona: e
proprio questa è la "parte" della donna. In tale apertura, nel
concepire e nel dare alla luce il figlio, la donna "si ritrova mediante
un dono sincero di sé". Il dono dell’interiore disponibilità
nell’accettare e nel mettere al mondo il figlio è collegato all’unione
matrimoniale, che - come è stato detto - dovrebbe
costituire un momento particolare del reciproco dono di sé da parte e della
donna e dell’uomo. Il concepimento e la nascita del nuovo uomo, secondo la
Bibbia, sono accompagnati dalle seguenti parole della donna-genitrice:
"Ho acquistato un uomo dal Signore" (cf. Gen 4,1). L’esclamazione di Eva, "madre di tutti i viventi", si ripete
ogni volta che viene al mondo un nuovo uomo ed esprime la gioia e la
consapevolezza della donna di partecipare al grande mistero dell’eterno
generare. Gli sposi partecipano della potenza creatrice di Dio! La maternità
della donna, nel periodo tra il concepimento e la nascita del bambino, è un
processo bio-fisiologico e psichico che ai nostri giorni è conosciuto meglio
che non in passato ed è oggetto di molti studi approfonditi. L’analisi
scientifica conferma pienamente come la stessa costituzione fisica della
donna e il suo organismo contengano in sé la
disposizione naturale alla maternità, al concepimento, alla gravidanza e al
parto del bambino, in conseguenza dell’unione matrimoniale con l’uomo. Al
tempo stesso, tutto ciò corrisponde anche alla struttura psicofisica della
donna. Quanto i diversi rami della scienza dicono su questo
argomento è importante ed utile, purché non si limitino ad
un’interpretazione esclusivamente bio-fisiologica della donna e della
maternità. Una simile immagine "ridotta" andrebbe di pari passo con
la concezione materialistica dell’uomo e del mondo. In tal caso, andrebbe
purtroppo smarrito ciò che è veramente essenziale: la maternità, come fatto e
fenomeno umano, si spiega pienamente in base alla verità sulla persona. La
maternità è legata con la struttura personale dell’essere donna e con la dimensione personale del dono: "Ho acquistato un uomo
dal Signore" (Gen 4,1). Il Creatore fa ai genitori il dono del figlio.
Da parte della donna, questo fatto è collegato in modo speciale ad "un
dono sincero di sé". Le parole di Maria all’annunciazione: "Avvenga
di me quello che hai detto" significano la disponibilità della donna al
dono di sé e all’accoglienza della nuova vita. Nella maternità
della donna, unita alla paternità dell’uomo, si riflette l’eterno mistero del
generare che è in Dio stesso, in Dio uno e trino (cf. Ef 3,14-15). L’umano generare
è comune all’uomo e alla donna. E, se la donna, guidata
dall’amore verso il marito, dirà: "Ti ho dato un figlio", le sue
parole nello stesso tempo significano: "Questo è nostro figlio".
Eppure, anche se tutti e due insieme sono genitori
del loro bambino, la maternità della donna costituisce una "parte"
speciale di questo commune essere genitori, nonché la parte più impegnativa.
L’essere genitori - anche se appartiene ad ambedue - si realizza molto più
nella donna, specialmente nel periodo prenatale. È la donna a
"pagare" direttamente per questo comune generare, che letteralmente
assorbe le energie del suo corpo e della sua anima. Bisogna, pertanto, che
l’uomo sia pienamente consapevole di contrarre, in questo loro comune essere
genitori, uno speciale debito verso la donna. Nessun programma di
"parità di diritti" delle donne e degli uomini è
valido, se non ti tiene presente questo in un modo del tutto essenziale. La maternità
contiene in sé una speciale comunione col mistero della vita, che matura nel
seno della donna: la madre ammira questo mistero, con singolare intuizione
"comprende" quello che sta avvenendo dentro di lei. Alla luce del
"principio" la madre accetta ed ama il figlio che porta in grembo
come una persona. Questo modo unico di contatto col nuovo uomo che si sta
formando crea, a sua volta, un atteggiamento verso l’uomo - non solo verso il
proprio figlio, ma verso l’uomo in genere -, tale da caratterizzare
profondamente tutta la personalità della donna. Si ritiene comunemente che la
donna più dell’uomo sia capace di attenzione verso
la persona concreta e che la maternità sviluppi ancora di più questa
disposizione. L’uomo - sia pure con tutta la sua partecipazione all’essere
genitore - si trova sempre "all’esterno" del processo della gravidanza
e della nascita del bambino, e deve per tanti aspetti imparare dalla madre la
sua propria "paternità". Questo - si può
dire - fa parte del normale dinamismo umano dell’essere genitori, anche
quando si tratta delle tappe successive alla nascita del bambino,
specialmente nel primo periodo. L’educazione del figlio, globalmente intesa,
dovrebbe contenere in sé il duplice contributo dei genitori: il contributo
materno e paterno. Tuttavia, quello materno è decisivo per le basi di una
nuova personalità umana. La maternità in relazione all’alleanza 19. Ritorna nelle
nostre riflessioni il paradigma biblico della "donna", assunto dal
Protoevangelo. La "donna", come genitrice e come
prima educatrice dell’uomo (l’educazione è la dimensione spirituale
dell’essere genitori), possiede una specifica precedenza sull’uomo. Se la sua maternità (innanzitutto in senso biofisico)
dipende dall’uomo, essa imprime un "segno" essenziale su tutto il
processo del far crescere come persona i nuovi figli e figlie della stirpe
umana. La maternità della donna in senso biofisico manifesta un’apparente
passività: il processo della formazione di una nuova vita "avviene"
in lei, nel suo organismo, tuttavia avviene coinvolgendolo in profondità. Nello stesso tempo, la maternità in senso personale-etico esprime
una creatività molto importante della donna, dalla quale dipende in misura
principale l’umanità stessa del nuovo essere umano. Anche
in questo senso la maternità della donna manifesta una speciale chiamata ed
una speciale sfida, che si rivolgono all’uomo e alla sua paternità. Il paradigma
biblico della "donna" culmina nella maternità della Madre di Dio.
Le parole del Protoevangelo: "Porrò inimicizia tra te e la donna"
trovano qui una nuova conferma. Ecco che Dio in lei, nel
suo "fiat" materno ("Avvenga di me"), dà inizio ad una
nuova alleanza con l’umanità. È questa l’alleanza eterna e definitiva
in Cristo, nel suo corpo e sangue, nella sua croce e risurrezione. Proprio
perché questa alleanza deve compiersi "nella
came e nel sangue" il suo inizio è nella genitrice. Il "Figlio
dell’Altissimo" solamente grazie a lei e al suo verginale e materno
"fiat" può dire al Padre: "Un corpo mi hai preparato. Ecco io
vengo per fare, o Dio la tua volontà" (Eb
10,5.7). Nell’ordine
dell’alleanza, che Dio ha stretto con l’uomo in Gesù Cristo, è stata
introdotta la maternità della donna. E ogni volta, tutte le volte che la
maternità della donna si ripete nella storia umana sulla terra, rimane ormai
sempre in relazione all’alleanza che Dio ha
stabilito col genere umano mediante la maternità della Madre di Dio. Questa realtà non
è forse dimostrata dalla risposta che Gesù dà al grido di quella donna in
mezzo alla folla, che lo benediceva per la maternità della sua Genitrice:
"Beato il grembo che ti ha portato e il seno da cui hai preso il
latte"? Gesù rispose: "Beati piuttosto coloro che
ascoltano la parola di Dio e la osservano" (Lc 11,27-28). Gesù
conferma il senso della maternità in riferimento al
corpo; nello stesso tempo, però, ne indica un senso ancor più profondo, che
si collega all’ordine dello spirito: essa è segno dell’alleanza con Dio che
"è spirito" (Gv 4,24). Tale è soprattutto la maternità della Madre
di Dio. Anche la maternità di ogni donna, intesa alla luce
del Vangelo, non è solo "della carne e del sangue": in essa
si esprime il profondo "ascolto della Parola del Dio vivo" e la
disponibilità a "custodire" questa Parola, che è "parola di
vita eterna" (cf. Gv 6,68). Sono, infatti, proprio i nati dalle madri
terrene, i figli e le figlie del genere umano, a ricevere dal Figlio di Dio
il potere di diventare "figli di Dio" (Gv 1,12). La dimensione
della nuova alleanza nel sangue di Cristo penetra l’umano generare rendendolo
realtà e compito di "creature nuove" (2Cor
5,17). La maternità della donna, dal punto di vista della storia di ogni uomo, è la prima soglia, il cui superamento
condiziona anche "la rivelazione dei figli di Dio" (cf. Rm 8,19). "La donna
quando partorisce, è afflitta, perché è giunta la sua ora; ma quando ha dato
alla luce il bambino, non si ricorda più dell’afflizione, per la gioia che è venuto al mondo un uomo" (Gv 16,21). Le parole di
Cristo si riferiscono, nella loro prima parte, a quei "dolori del
parto" che appartengono al retaggio del peccato originale; nello stesso
tempo, però, indicano il legame che la maternità della donna ha col mistero
pasquale. In questo mistero, infatti, è contenuto anche il dolore della Madre
sotto la croce - della Madre che mediante la fede partecipa allo sconvolgente
mistero della "spogliazione" del proprio Figlio. "È questa
forse la più profonda "kénosi" della fede nella storia
dell’umanità" ("Redemptoris Mater", 18). Contemplando
questa Madre, alla quale "una spada ha trafitto il cuore" (Lc
2,35), il pensiero si volge a tutte le donne sofferenti nel mondo, sofferenti
in senso sia fisico che morale. In questa sofferenza ha una parte la sensibilità
propria della donna; anche se essa spesso sa resistere alla sofferenza più
dell’uomo. È difficile enumerare queste sofferenze, è difficile chiamarle
tutte per nome: si possono ricordare la premura materna per i figli,
specialmente quando sono ammalati o prendono una cattiva strada, la morte
delle persone più care, la solitudine delle madri dimenticate dai figli
adulti o quella delle vedove, le sofferenze delle donne che da sole lottano
per sopravvivere e delle donne che hanno subito un torto o vengono
sfruttate. Ci sono, infine, le sofferenze delle coscienze a causa del
peccato, che ha colpito la dignità umana o materna della donna, le ferite
delle coscienze che non si rimarginano facilmente. Anche
con queste sofferenze bisogna porsi sotto la croce di Cristo. Ma le parole del Vangelo
sulla donna che prova afflizione, quando per lei giunge l’ora di dare alla
luce il figlio, esprimono subito dopo la gioia: e "la gioia che è venuto
al mondo un uomo". Ed anch’essa è riferita al mistero pasquale, ossia a
quella gioia che viene comunicata agli apostoli il
giorno della risurrezione di Cristo: "Così anche voi, ora, siete nella
tristezza" (queste parole furono pronunciate il giorno prima della
passione); "ma vi vedrò di nuovo, e il vostro cuore si rallegrerà, e
nessuno vi potrà togliere la vostra gioia" (Gv 16,22-23). La verginità per il regno 20.
Nell’insegnamento di Cristo la maternità è collegata alla verginità, ma è
anche distinta da essa. Al riguardo, rimane
fondamentale la frase detta da Gesù ed inserita nel colloquio
sull’indissolubilità del matrimonio. Sentita la risposta data ai farisei, i
discepoli dicono a Cristo: "Se questa è la condizione dell’uomo rispetto
alla donna, non conviene sposarsi" (Mt 19,10). Indipendentemente dal
senso che quel "non conviene" aveva allora nella mente dei
discepoli, Cristo prende lo spunto dalla loro errata opinione per istruirli
sul valore del celibato: egli distingue il celibato per effetto di deficienze
naturali, anche se causate dall’uomo, dal "celibato per il regno dei
cieli". Cristo dice: "E vi sono altri che si sono fatti eunuchi per
il regno dei cieli" (Mt 19,12). Si tratta, dunque, di un celibato
libero, scelto a motivo del regno dei cieli, in considerazione della
vocazione escatologica dell’uomo all’unione con Dio. Egli poi aggiunge:
"Chi può capire, capisca", e queste parole
sono una ripresa di ciò che aveva detto all’inizio del discorso sul celibato
(cf. Mt 19,11). Pertanto il celibato per il regno dei cieli è il frutto non
solo di una libera scelta da parte dell’uomo, ma anche di una speciale grazia
da parte di Dio, che chiama una determinata persona a vivere il celibato. Se questo è un segno speciale del regno di Dio che deve
venire, nello stesso tempo serve a dedicare in modo esclusivo tutte le
energie dell’anima e del corpo, durante la vita temporale, per il regno
escatologico. Le parole di Gesù
sono la risposta alla domanda dei discepoli. Esse sono rivolte direttamente a
coloro che ponevano la domanda: in questo caso erano
uomini. Nondimeno, la risposta di Cristo, in se
stessa, ha valore sia per gli uomini che per le donne. In questo contesto essa indica l’ideale evangelico della verginità,
ideale che costituisce una chiara "novità" in rapporto alla
tradizione dell’antico testamento. Questa tradizione certamente si collegava
in qualche modo anche con l’attesa di Israele, e
specialmente della donna di Israele, per la venuta del Messia, che doveva
essere della "stirpe della donna". In effetti
l’ideale del celibato e della verginità per una maggiore vicinanza a Dio non
era del tutto alieno in certi ambienti giudaici, soprattutto nei tempi
immediatamente precedenti alla venuta di Gesù. Tuttavia il celibato per il
regno, ossia la verginità, è una novità innegabile connessa con
l’incarnazione di Dio. Dal momento della
venuta di Cristo l’attesa del Popolo di Dio deve
volgersi verso il regno escatologico che viene e nel quale egli stesso deve
introdurre "il nuovo Israele". Per una simile svolta e cambiamento
di valori, infatti, è indispensabile una nuova consapevolezza della fede. Ciò
Cristo sottolinea due volte: "Chi può capire,
capisca". Ciò comprendono solo "coloro ai quali e stato
concesso" (cf. Mt 19,11). Maria è la prima persona nella quale si è
manifestata questa nuova consapevolezza, poiché chiede all’angelo: "Come
avverrà questo? Non conosco uomo" (Lc 1,34). Anche se è "promessa
sposa di un uomo, chiamato Giuseppe" (Lc 1,27), ella
è ferma nel proposito della verginità, e la maternità che in lei si compie
proviene esclusivamente dalla "potenza dell’Altissimo", è frutto
della discesa dello Spirito Santo su di lei (cf. Lc 1,35). Questa maternità
divina, dunque, è la risposta del tutto imprevedibile all’attesa umana della
donna in Israele: essa giunge a Maria come dono di Dio stesso. Questo dono è
divenuto l’inizio e il prototipo di una nuova attesa di tutti gli uomini a
misura dell’eterna alleanza, a misura della nuova e definitiva promessa di
Dio: segno della speranza escatologica. Sulla base del
Vangelo si è sviluppato e approfondito il senso della verginità come
vocazione anche per la donna, in cui trova conferma la sua dignità a
somiglianza della Vergine di Nazaret. Il Vangelo propone l’ideale della
consacrazione della persona, che significa la sua dedizione esclusiva a Dio
in virtù dei consigli evangelici, in particolare quelli della castità,
povertà ed obbedienza. La loro perfetta incarnazione è Gesù Cristo stesso.
Chi desidera seguirlo in modo radicale sceglie di
condurre la vita secondo questi consigli. Essi si distinguono dai
comandamenti ed indicano al cristiano la via della radicalità evangelica. Sin
dagli inizi del cristianesimo su questa via s’incamminano uomini e donne, dal
momento che l’ideale evangelico viene rivolto
all’essere umano senza alcuna differenza di sesso. In questo più
ampio contesto occorre considerare la verginità
anche come una via per la donna, una via sulla quale, in un modo diverso dal
matrimonio, essa realizza la sua personalità di donna. Per comprendere questa
via bisogna ancora una volta ricorrere all’idea fondamentale
dell’antropologia cristiana. Nella verginità liberamente scelta la donna
conferma se stessa come persona, ossia come essere
che il Creatore sin dall’inizio ha voluto per se stesso (cf. "Gaudium et
Spes", 24), e contemporaneamente realizza il valore personale della
propria femminilità, diventando "un dono sincero" per Dio che si è
rivelato in Cristo, un dono per Cristo redentore dell’uomo e sposo delle
anime: un dono "sponsale". Non si può comprendere rettamente la
verginità, la consacrazione della donna nella verginità, senza far ricorso
all’amore sponsale: è, infatti, in un simile amore che la persona diventa un
dono per l’altro (cf. "Allocutiones diebus Mercurii
habitae", 7 et 21 apr. 1982: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, V, 1
[1982] 1126-1131 et 1175-1179). Del resto analogamente, è da intendere
la consacrazione dell’uomo nel celibato sacerdotale oppure nello stato
religioso. La naturale
disposizione sponsale della personalità femminile trova una risposta nella
verginità così intesa. La donna, chiamata fin dal "principio" ad
essere amata e ad amare, trova nella vocazione alla verginità, anzitutto, il
Cristo come il redentore che "amò sino alla fine" per mezzo del
dono totale di sé, ed essa risponde a questo dono con un "dono
sincero" di tutta la sua vita. Ella si dona,
dunque, allo sposo divino, e questa sua donazione personale tende all’unione,
che ha un carattere propriamente spirituale: mediante l’azione dello Spirito
Santo diventa "un solo spirito" con Cristo-sposo (1Cor 6,17). È questo l’ideale
evangelico della verginità, in cui si realizzano in una forma speciale sia la
dignità che la vocazione della donna. Nella verginità così intesa si esprime
il cosiddetto radicalismo del Vangelo: lasciare tutto e seguire Cristo (cf.
Mt 19,27). Ciò non può esser paragonato al semplice
rimanere nubili o celibi, perché la verginità non si restringe al solo
"no", ma contiene un profondo "si" nell’ordine sponsale:
il donarsi per amore in modo totale ed indiviso. La maternità secondo lo spirito 21. La verginità
nel senso evangelico comporta la rinuncia al matrimonio, e dunque anche alla
maternità fisica. Tuttavia, la rinuncia a questo tipo di maternità, che può anche
comportare un grande sacrificio per il cuore della
donna, apre all’esperienza di una maternità di diverso senso: la maternità
"secondo lo spirito" (cf. Rm 8,4). La verginità, infatti, non priva
la donna delle sue prerogative. La maternità spirituale riveste molteplici
forme. Nella vita delle donne consacrate che vivono, ad esempio, secondo il
carisma e le regole dei diversi istituti di carattere apostolico, essa si
potrà esprimere come sollecitudine per gli uomini, specialmente per i più
bisognosi: gli ammalati, i portatori di handicap, gli abbandonati, gli
orfani, gli anziani, i bambini, la gioventù, i carcerati e, in genere, gli
emarginati. Una donna consacrata ritrova in tal modo lo sposo, diverso e
unico in tutti e in ciascuno, secondo le sue stesse parole: "Ogni volte che avete fatto queste cose a uno solo di
questi..., l’avete fatto a me" (Mt 25,40). L’amore sponsale comporta
sempre una singolare disponibilità ad essere riversato su quanti si trovano
nel raggio della sua azione. Nel matrimonio questa disponibilità, pur essendo
aperta a tutti, consiste in particolare nell’amore che i genitori donano ai
figli. Nella verginità questa disponibilità è aperta a tutti gli uomini,
abbracciati dall’amore di Cristo sposo. In rapporto a Cristo, che è il redentore
di tutti e di ciascuno, l’amore sponsale, il cui potenziale materno si
nasconde nel cuore della donna-sposa verginale, è anche disposto ad aprirsi a
tutti e a ciascuno. Ciò trova una conferma nelle comunità religiose di vita
apostolica, ed una diversa conferma in quelle di vita contemplativa o di
clausura. Esistono inoltre altre forme di vocazione alla verginità per il
regno, come, per esempio, gli istituti secolari oppure le comunità di
consacrati che fioriscono all’interno di movimenti, gruppi e associazioni: in
tutte queste realtà la stessa verità sulla maternità spirituale delle persone
che vivono nella verginità trova una multiforme conferma. Comunque,
non si tratta solamente di forme comunitarie, ma anche di forme
extra-comunitarie. In definitiva la verginità, come vocazione della donna, è
sempre vocazione di una persona, di una concreta ed irripetibile
persona. Dunque, profondamente personale è anche la
maternità spirituale che si fa sentire in questa vocazione. Su questa base si verifica anche uno specifico avvicinamento tra la
verginità della donna non sposata e la maternità della donna sposata. Un tale
avvicinamento muove non solo dalla maternità verso la verginità, come è stato messo in rilievo sopra, essa muove anche
dalla verginità verso il matrimonio, inteso come forma di vocazione della
donna in cui questa diventa madre dei figli nati dal suo grembo. Il punto di
partenza di questa seconda analogia è il significato delle nozze. La donna,
infatti, è "sposata" sia mediante il sacramento del Matrimonio, sia
spiritualmente mediante le nozze con Cristo. Nell’uno e nell’altro caso le
nozze indicano il "dono sincero della persona" della sposa verso lo
sposo. In questo modo - si può dire - il profilo del matrimonio si ritrova
spiritualmente nella verginità. E se si tratta della maternità fisica, non
deve forse anch’essa essere una maternità spirituale, per rispondere alla
verità globale sull’uomo che è un’unità di corpo e
di spirito? Esistono, quindi, molte ragioni per scorgere in queste due
diverse vie - due diverse vocazioni di vita della donna - una profonda
complementarietà e, addirittura, una profonda unione all’interno dell’essere
della persona. "Figlioli miei, che io di nuovo partorisco
nel dolore" 22. Il Vangelo
rivela e permette di capire proprio questo modo di essere della persona
umana. Il Vangelo aiuta ciascuna donna e ciascun uomo a viverlo e così a
realizzarsi. Esiste, infatti, una totale uguaglianza rispetto ai doni dello
Spirito Santo, rispetto alle "grandi opere di Dio" (At 2,11). Non
solo questo. Proprio di fronte alle "grandi opere di Dio"
l’Apostolo-uomo sente il bisogno di ricorrere a ciò che è per essenza
femminile, al fine di esprimere la verità sul proprio servizio apostolico.
Proprio così agisce Paolo di Tarso, quando si rivolge ai Galati con le
parole: "Figlioli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore" (Gal
4,19). Nella prima lettera ai Corinzi (1Cor 7,38)
l’Apostolo annuncia la superiorità della verginità sul matrimonio, dottrina
costante della Chiesa nello spirito delle parole di Cristo, riportate nel
Vangelo di Matteo (Mt 19,10-12), senza affatto offuscare l’importanza della
maternità fisica e spirituale. Per illustrare la fondamentale missione della
Chiesa, egli non trova di meglio che il riferimento alla maternità. Troviamo un
riflesso della stessa analogia - e della stessa verità - nella costituzione
dogmatica sulla Chiesa. Maria è la "figura" della Chiesa (cf. "Lumen Gentium", 63; S. Ambrosii "In Luc.",
II, 7: S. Ch. 45, 74; "De instit. virg.",
XIV, 87-89: PL 16, 326-327; S. Cyrilli Alexandrini "Hom.", 4: PG
77, 996; S. Isidori Hispalensis "Allegoriae", 139: PL 83, 117).
"Infatti, nel mistero della Chiesa, la quale pure è giustamente chiamata
madre e vergine..., Maria è andata innanzi,
presentandosi in modo eminente e singolare, quale vergine e quale madre...
Diede poi alla luce il Figlio, che Dio ha posto quale primogenito tra i molti
fratelli (Rm 8,29), cioè tra i fedeli, alla cui rigenerazione e formazione
essa coopera con amore di madre" ("Lumen Gentium", 63).
"Orbene, la Chiesa, la quale contempla l’arcana santità di lei e ne
imita la carità e adempie fedelmente la volontà del Padre, per mezzo della
Parola di Dio accolta con fedeltà, diventa essa pure madre, poiché con la
predicazione e il Battesimo genera a una vita nuova
e immortale i figlioli, concepiti ad opera dello Spirito Santo e nati da
Dio" ("Lumen Gentium", 64). Si tratta qui della maternità
"secondo lo spirito" nei riguardi dei figli e delle figlie del
genere umano. E una tale maternità - come si è detto
- diventa la "parte" della donna anche nella verginità. La Chiesa
"pure è vergine, che custodisce integra e pura la fede data allo
Sposo" ("Lumen Gentium", 64). Ciò trova in Maria il più
perfetto compimento. La Chiesa, dunque, "ad imitazione della Madre del
suo Signore, con la virtù dello Spirito Santo, conserva verginalmente integra
la fede, solida la speranza, sincera la carità" ("Lumen
Gentium", 64. Sul rapporto Maria-Chiesa, che
ininterrottamente ricorre nella riflessione dei Padri della Chiesa e di tutta
la Tradizione cristiana, cf. "Redemptoris Mater", 42-44 et
notae 117-127. Cfr. insuper Clementis Alexandrini
"Paed." 1, 6: S. Ch. 70, 186s.; S. Ambrosii "In Luc." II, 7: S. Ch. 45, 74; S.
Augustini "Sermo 192", 2: PL 38, 1012; "Sermo 195", 2: PL
38, 1018; "Sermo 25", 5: PL 54, 211; "Sermo 26", 2: PL
54, 213; Bedae Venerabilis "In Luc." I, 2:
PL 92, 330. "Ambedue madri- scrive Isacco della
Stella, discepolo di S. Bernardo -, ambedue vergini, ambedue concepiscono per
opera dello Spirito Santo... Maria... ha generato al corpo il suo capo; la
Chiesa... dona a questo capo il suo corpo. L’una e l’altra sono madri del
Cristo: ma nessuna delle due lo genera tutto intero senza l’altra. Perciò
giustamente... quel che è detto in generale della vergine madre Chiesa s’intende singolarmente della vergine madre Maria;
e quel che si dice in modo speciale della vergine madre Maria va riferito in
generale alla vergine madre Chiesa; e quanto si dice di una delle due può
essere inteso indifferentemente dell’una e dell’altra". ). Il Concilio ha
confermato che, se non si ricorre alla Madre di Dio, non è possibile
comprendere il mistero della Chiesa, la sua realtà, la sua essenziale
vitalità. Indirettamente troviamo qui il riferimento al paradigma biblico
della "donna", quale si delinea
chiaramente già nella descrizione del "principio" (cf. Gen 3,15) e
lungo il percorso che va dalla creazione, attraverso il peccato, fino alla
redenzione. In questo modo si conferma la profonda unione tra ciò che è umano
e ciò che costituisce l’economia divina della salvezza nella storia
dell’uomo. La Bibbia ci convince del fatto che non si può avere un’adeguata
ermeneutica dell’uomo, ossia di ciò che è "umano", senza un
adeguato ricorso a ciò che è "femminile". Analogamente avviene nell’economia
salvifica di Dio: se vogliamo comprenderla pienamente in rapporto a tutta la
storia dell’uomo, non possiamo tralasciare, nell’ottica
della nostra fede, il mistero della "donna": vergine-madre-sposa. VII. La Chiesa-sposa di Cristo Il "grande
mistero" 23. Un’importanza
fondamentale hanno al riguardo le parole della
lettera agli Efesini: "E voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo
ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa,
purificandola per mezzo del lavacro dell’acqua accompagnato dalla parola, al
fine di farsi comparire davanti la sua Chiesa tutta gloriosa, senza macchia
né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata. Così anche i mariti
hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo, perché chi ama la propria moglie ama se stesso. Nessuno, infatti, ha
preso mai in odio la propria carne; al contrario, la nutre e la cura, come fa
Cristo con la Chiesa, poiché siamo membra del suo corpo. Per questo, l’uomo
lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna, e i due formeranno
una carne sola. Questo mistero è grande; lo dico in
riferimento a Cristo e alla Chiesa!" (Ef 5,25-32). In questa lettera
l’autore esprime la verità sulla Chiesa come sposa di Cristo, indicando
altresì come questa verità si radica nella realtà biblica della creazione
dell’uomo maschio e femmina. Creati a immagine e
somiglianza di Dio come "unità dei due", entrambi sono stati
chiamati ad un amore di carattere sponsale. Si può anche dire che, seguendo
la descrizione della creazione nel libro della Genesi (Gen 2,18-24), questa
chiamata fondamentale si manifesta insieme con la creazione della donna e viene iscritta dal Creatore nell’istituzione del
matrimonio, che, secondo Genesi (Gen 2,24), sin dall’inizio possiede il
carattere di unione delle persone ("communio personarum"). Anche se non direttamente la stessa descrizione del
"principio" (cf. Gen 1,27 e Gen 2,24) indica che tutto
l’"ethos" dei reciproci rapporti tra l’uomo e la donna deve
corrispondere alla verità personale del loro essere. Tutto questo è
già stato considerato precedentemente. Il testo
della lettera agli Efesini conferma ancora una volta la suddetta verità, e
nello stesso tempo paragona il carattere sponsale dell’amore tra l’uomo e la
donna al mistero di Cristo e della Chiesa. Cristo è lo
sposo della Chiesa, la Chiesa è la sposa di Cristo. Questa analogia
non è senza precedenti: essa trasferisce nel nuovo testamento ciò che già era
contenuto nell’antico testamento, in particolare, presso i profeti Osea,
Geremia, Ezechiele, Isaia (cf. ex.gr, "Os 1,2;
2,16-18; Ger 2,2; Ez 16,8; Is 50,1;54,5-8"). I rispettivi passi meritano
una analisi a parte. Riportiamo almeno un testo. Ecco come Dio parla al suo popolo eletto per mezzo del profeta:
"Non temere, perché non dovrai più arrossire; non vergognarti, perché
non sarai più disonorata; anzi, dimenticherai la vergogna della tua
giovinezza e non ricorderai più il disonore della tua vedovanza.
Poiché tuo sposo è il tuo Creatore, Signore degli eserciti è il suo nome; tuo
redentore è il Santo di Israele, è chiamato Dio di
tutta la terra ... Viene forse ripudiata la donna sposata in gioventù? Dice
il tuo Dio. Per un breve istante ti ho abbandonata,
ma ti riprenderò con immenso amore. In un impeto di collera ti ho nascosto
per un poco il mio volto; ma con affetto perenne ho avuto pietà di te, dice
il tuo redentore, il Signore... Anche se i monti si
spostassero e i colli vacillassero, non si allontanerebbe da te il mio
affetto, né vacillerebbe la mia alleanza di pace" (Is 54,4-8.10). Se l’essere umano
- uomo o donna - è stato creato a immagine e
somiglianza di Dio, Dio può parlare di sé per bocca del profeta servendosi
del linguaggio che è per essenza umano: nel citato testo di Isaia,
"umana" è l’espressione dell’amore di Dio, ma l’amore stesso è
divino. Essendo amore di Dio, esso ha un carattere sponsale propriamente
divino, anche se espresso con l’analogia dell’amore dell’uomo verso la donna.
Questa donna-sposa è Israele, in quanto popolo
eletto da Dio, e questa elezione ha la sua fonte esclusivamente nell’amore
gratuito di Dio. Proprio con questo amore si spiega
l’alleanza, presentata spesso come l’alleanza matrimoniale, che Dio sempre
nuovamente stringe col suo popolo eletto. Essa è da parte di Dio "un
impegno" duraturo: egli rimane fedele al suo amore sponsale, anche se la
sposa più volte si è dimostrata infedele. Questa immagine
dell’amore sponsale insieme alla figura dello sposo divino - un’immagine
molto chiara nei testi profetici - trova conferma e coronamento nella lettera
agli Efesini (Ef 5,23-32). Cristo è salutato come sposo da Giovanni Battista
(cf. Gv 3,27-29): anzi, Cristo stesso applica a sé questo paragone attinto
dai profeti (cf. Mc 2,19-20). L’apostolo Paolo, che porta in sé tutto il
patrimonio dell’antico testamento, scrive ai Corinzi: "Io, provo,
infatti, per voi una specie di gelosia divina, avendovi promessi a un unico sposo, per presentarvi quale vergine casta a
Cristo" (2Cor 11,2). L’espressione più piena, però,
della verità sull’amore di Cristo redentore, secondo l’analogia dell’amore
sponsale del matrimonio, si trova nella lettera agli Efesini: "Cristo ha
amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei" (Ef 5,25), ed in ciò riceve
piena conferma il fatto che la Chiesa è la sposa di Cristo: "Tuo
redentore è il Santo d’Israele" (Is 54,5). Nel testo paolino
l’analogia della relazione sponsale va contemporaneamente in due direzioni,
che compongono l’insieme del "grande
mistero" ("sacramentum magnum"). L’alleanza propria degli
sposi "spiega" il carattere sponsale dell’unione di Cristo con la
Chiesa; ed a sua volta questa unione, come
"grande sacramento", decide della sacramentalità del matrimonio
quale alleanza santa dei due sposi, uomo e donna. Leggendo questo passo,
ricco e complesso, che è nell’insieme una grande analogia,
dobbiamo distinguere ciò che in esso esprime la realtà umana dei rapporti
interpersonali da ciò che esprime con linguaggio simbolico il "grande
mistero" divino. La "novità" evangelica 24. Il testo è
rivolto agli sposi come a donne e uomini concreti e ricorda loro
l’"ethos" dell’amore sponsale che risale all’istituzione divina del
matrimonio sin dal "principio". Alla verità di questa
istituzione risponde l’esortazione "Voi, mariti, amate le vostre
mogli", amatele a motivo di quello speciale e unico legame mediante il
quale l’uomo e la donna diventano nel matrimonio "una carne sola"
(Gen 2,24; Ef 5,31). Si ha in questo amore una
fondamentale affermazione della donna come persona, un’affermazione grazie
alla quale la personalità femminile può pienamente svilupparsi ed
arricchirsi. Proprio così agisce Cristo come sposo della Chiesa, desiderando
che essa sia "gloriosa, senza macchia né ruga" (Ef 5,27). Si può
dire che qui sia pienamente assunto quanto costituisce lo "stile"
di Cristo nel trattare la donna. Il marito dovrebbe far propri gli elementi
di questo stile nei riguardi della moglie: e, analogamente, dovrebbe fare
l’uomo nei riguardi della donna, in ogni situazione. Così tutt’e due, uomo e
donna, attuano il "dono sincero di sé"! L’autore della
lettera agli Efesini non vede alcuna contraddizione tra un’esortazione così
formulata e la costatazione che "le mogli siano sottomesse ai loro
mariti come al Signore; il marito, infatti, è capo della moglie" (Ef
5,22-23). L’autore sa che questa impostazione, tanto
profondamente radicata nel costume e nella tradizione religiosa del tempo,
deve essere intesa e attuata in un modo nuovo: come una "sottomissione reciproca nel timore di Cristo"
(Ef 5,21); tanto più che il marito è detto "capo" della moglie come
Cristo è capo della Chiesa, e lo è al fine di dare "se stesso per
lei" (Ef 5,25) e dare se stesso per lei è dare perfino la propria vita.
Ma, mentre nella relazione Cristo-Chiesa la sottomissione è
solo della Chiesa, nella relazione marito-moglie la
"sottomissione" non è unilaterale, bensì reciproca! In rapporto
all’"antico" questo è evidentemente
"nuovo": è la novità evangelica. Incontriamo diversi passi
in cui gli scritti apostolici esprimono questa novità, sebbene in essi si faccia pure sentire ciò che è "antico",
ciò che è radicato anche nella tradizione religiosa di Israele, nel suo modo
di comprendere e di spiegare i sacri testi, come, ad esempio, quello di
Genesi (Gen 2; cf. Col 3,18; 1Ts 3,1-6; Tt 2,4-5; Ef
5,22-24; 1Cor 11,3-16; 14,33-35; 1Tm 2,11-15). Le lettere
apostoliche sono indirizzate a persone che vivono in un ambiente che ha lo
stesso modo di pensare e di agire. La "novità" di Cristo è un
fatto: essa costituisce l’inequivocabile contenuto del messaggio evangelico
ed è frutto della redenzione. Nello stesso tempo, però, la
consapevolezza che nel matrimonio c’è la reciproca "sottomissione dei
coniugi nel timore di Cristo", e non soltanto quella della moglie al
marito, deve farsi strada nei cuori, nelle coscienze, nel comportamento, nei
costumi. È questo un appello che non cessa di urgere, da allora, le
generazioni che si succedono, un appello che gli uomini devono accogliere
sempre di nuovo. L’Apostolo scrisse non solo: "In Gesù
Cristo... non c’è più uomo né donna", ma anche: "Non c’è più
schiavo né libero". E tuttavia, quante
generazioni ci sono volute perché un tale principio si realizzasse nella
storia dell’umanità con l’abolizione dell’istituto della schiavitù! E che
cosa dire delle tante forme di schiavitù, alle quali sono soggetti uomini e
popoli, non ancora scomparse dalla scena della
storia? La sfida, però,
dell’"ethos" della redenzione è chiara e definitiva. Tutte le
ragioni in favore della "sottomissione" della donna all’uomo nel
matrimonio debbono essere interpretate nel senso di
una "reciproca sottomissione" di ambedue "nel timore di
Cristo". La misura del vero amore sponsale trova la sua sorgente più
profonda in Cristo, che è lo sposo della Chiesa, sua sposa. La dimensione simbolica del "grande mistero" 25. Nel testo
della lettera agli Efesini incontriamo una seconda dimensione dell’analogia
che, nel suo insieme, deve servire alla rivelazione del "grande mistero". È questa una dimensione simbolica.
Se l’amore di Dio verso l’uomo, verso il popolo eletto, Israele, viene presentato dai profeti come l’amore dello sposo per
la sposa, una tale analogia esprime la qualità "sponsale" e il
carattere divino e non umano dell’amore di Dio: "Tuo sposo è il tuo
Creatore..., è chiamato Dio di tutta la terra" (Is 54,5). Lo stesso si
dica anche dell’amore sponsale di Cristo redentore: "Dio, infatti, ha
tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito" (Gv 3,16). Si
tratta, dunque, dell’amore di Dio espresso mediante la redenzione, operata da
Cristo. Secondo la lettera paolina questo amore è "simile"
all’amore sponsale dei coniugi umani, ma naturalmente non è
"eguale". L’analogia, infatti, implica insieme una somiglianza,
lasciando un margine adeguato di non-somiglianza. È facile
rilevarlo, se consideriamo la figura della "sposa". Secondo la
lettera agli Efesini la sposa è la Chiesa, così come
per i profeti la sposa era Israele: dunque, è un soggetto collettivo, e non
una persona singola. Questo soggetto collettivo è il Popolo di Dio, ossia una
comunità composta da molte persone, sia donne che
uomini. "Cristo ha amato la Chiesa" proprio come comunità, come
Popolo di Dio e, nello stesso tempo, in questa Chiesa, che
nel medesimo passo è chiamata anche suo "corpo" (cf. Ef
5,23), egli ha amato ogni singola persona. Infatti,
Cristo ha redento tutti senza eccezione, ogni uomo e ogni donna. Nella redenzione
si esprime proprio questo amore di Dio e giunge a
compimento nella storia dell’uomo e del mondo il carattere sponsale di tale
amore. Cristo è entrato
in questa storia e vi rimane come lo sposo che "ha dato se stesso".
"Dare" vuol dire "diventare un dono sincero" nel modo più
completo e radicale: "Nessuno ha un amore più grande di questo" (Gv
15,13). In tale concezione, per mezzo della Chiesa, tutti gli esseri umani -
sia donne che uomini - sono chiamati ad essere la "sposa" di
Cristo, redentore del mondo. In questo modo "essere sposa", e
dunque il "femminile", diventa simbolo di tutto
l’"umano", secondo le parole di Paolo: "Non c’è più uomo né
donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo
Gesù" (Gal 3,28). Dal punto di
vista linguistico si può dire che l’analogia dell’amore sponsale secondo la
lettera agli Efesini riporta ciò che è "maschile" a ciò che è
"femminile", dato che, come membri della
Chiesa, anche gli uomini sono compresi nel concetto di "sposa". E ciò non può meravigliare, poiché l’Apostolo, per
esprimere la sua missione in Cristo e nella Chiesa, parla dei "figlioli
che partorisce nel dolore" (cf. Gal 4,19). Nell’ambito
di ciò che è "umano", di ciò che è umanamente personale, la
"mascolinità" e la "femminilità" si distinguono e nello
stesso tempo si completano e si spiegano a vicenda. Ciò è presente
anche nella grande analogia della "sposa"
nella lettera agli Efesini. Nella Chiesa ogni essere umano - maschio e
femmina - è la "sposa", in quanto accoglie
in dono l’amore di Cristo redentore, come pure in quanto cerca di rispondere
col dono della propria persona. Cristo è lo
sposo. Si esprime in questo la verità sull’amore di Dio che "ha amato
per primo" (cf. 1Gv 4,19) e che col dono generato da questo
amore sponsale per l’uomo ha superato tutte le attese umane: "Amò
sino alla fine" (Gv 13,1). Lo sposo - il Figlio consostanziale al Padre in quanto Dio - è divenuto Figlio di Maria, "Figlio
dell’uomo", vero uomo, maschio. Il simbolo dello sposo è di genere
maschile. In questo simbolo maschile è raffigurato il carattere umano
dell’amore in cui Dio ha espresso il suo amore divino per Israele, per la
Chiesa, per tutti gli uomini. Meditando quanto i Vangeli dicono circa
l’atteggiamento di Cristo verso le donne, possiamo concludere
che come uomo, figlio di Israele, rivelò la dignità delle "figlie di
Abramo" (cf. Lc 13,16), la dignità posseduta dalla
donna sin dal "principio" al pari dell’uomo. E nello stesso
tempo Cristo mise in rilievo tutta l’originalità che
distingue la donna dall’uomo, tutta la ricchezza ad essa elargita nel mistero
della creazione. Nell’atteggiamento di Cristo verso la donna si trova
realizzato in modo esemplare ciò che il testo della lettera agli Efesini
esprime col concetto di "sposo". Proprio perché l’amore divino di
Cristo è amore di sposo, esso è il paradigma e l’esemplare di
ogni amore umano, in particolare dell’amore degli uomini-maschi. L’Eucaristia 26. Sull’ampio sfondo del "grande
mistero", che si esprime nel rapporto sponsale tra Cristo e la Chiesa, è
possibile anche comprendere in modo adeguato il fatto della chiamata dei
"dodici". Chiamando solo uomini come suoi apostoli, Cristo ha agito
in un modo del tutto libero e sovrano. Ciò ha fatto con la stessa libertà con
cui, in tutto il suo comportamento, ha messo in rilievo
la dignità e la vocazione della donna, senza conformarsi al costume
prevalente e alla tradizione sancita anche dalla legislazione del tempo.
Pertanto, l’ipotesi che egli abbia chiamato come
apostoli degli uomini, seguendo la mentalità diffusa ai suoi tempi, non corrisponde
affatto al modo di agire di Cristo. "Maestro, sappiamo che sei veritiero
e insegni la via di Dio secondo verità..., perché
non guardi in faccia ad alcuno" (Mt 22,16). Queste parole caratterizzano
pienamente il comportamento di Gesù di Nazaret. In questo si trova anche una
spiegazione per la chiamata dei "dodici". Essi
sono con Cristo durante l’ultima cena; essi soli ricevono il mandato
sacramentale: "Fate questo in memoria di me" (Lc 22,19; 1Cor
11,24), collegato all’istituzione dell’Eucaristia. Essi, la sera del
giorno della risurrezione, ricevono lo Spirito Santo per perdonare i peccati:
"A chi rimetterete i peccati saranno rimessi, e a chi non li rimetterete
resteranno non rimessi" (Gv 20,23). Ci troviamo al centro stesso del mistero pasquale, che rivela fino in
fondo l’amore sponsale di Dio. Cristo è lo sposo perché "ha dato se
stesso": il suo corpo è stato "dato", il suo sangue è stato
"versato" (cf. Lc 22,19-20). In questo modo "amò sino alla
fine" (Gv 13,1). Il "dono sincero",
contenuto nel sacrificio della croce, fa risaltare in modo definitivo il
senso sponsale dell’amore di Dio. Cristo è lo sposo della Chiesa, come
Redentore del mondo. L’Eucaristia è il sacramento della nostra redenzione. È
il sacramento dello sposo, della sposa. L’Eucaristia rende presente e in modo
sacramentale realizza di nuovo l’atto redentore di Cristo, che
"crea" la Chiesa suo corpo. Con questo "corpo" Cristo è
unito come lo sposo con la sposa. Tutto questo è contenuto nella lettera agli
Efesini. Nel "grande mistero" di Cristo e
della Chiesa viene introdotta la perenne "unità dei due",
costituita sin dal "principio" tra uomo e donna. Se Cristo, istituendo l’Eucaristia, l’ha collegata
in modo così esplicito al servizio sacerdotale degli apostoli, è lecito
pensare che in tal modo egli voleva esprimere la relazione tra uomo e donna,
tra ciò che è "femminile" e ciò che è "maschile", voluta
da Dio, sia nel mistero della creazione che in quello della redenzione. Prima
di tutto nell’Eucaristia si esprime in modo sacramentale l’atto redentore di
Cristo sposo nei riguardi della Chiesa sposa. Ciò
diventa trasparente ed univoco, quando il servizio sacramentale
dell’Eucaristia, in cui il sacerdote agisce "in persona Christi", viene compiuto dall’uomo. È una spiegazione che conferma
l’insegnamento della dichiarazione "Inter Insigniores", pubblicata
per incarico di Paolo VI per rispondere all’interrogativo circa la questione
dell’ammissione delle donne al servizio ministeriale (cf. S. Congr. pro Doctrina Fidei "Declaratio Inter Insigniores"
circa quaestionem admissionis mulierum ad sacerdotium ministeriale, die 15
oct. 1976: AAS 69 [1977] 98-116). Il dono della sposa 27. Il Concilio
Vaticano II ha rinnovato nella Chiesa la coscienza dell’universalità del
sacerdozio. Nella nuova alleanza c’è un solo sacrificio e un solo sacerdote:
Cristo. Di questo unico sacerdozio partecipano tutti
i battezzati, sia uomini che donne, in quanto devono "offrire se stessi
come vittima viva, santa, a Dio gradita" (cf. Rm 12,1), dare in ogni
luogo testimonianza di Cristo e, a chi la richieda, rendere ragione della
loro speranza della vita eterna (cf. 1Pt 3,15. cf. "Lumen Gentium",
10). La partecipazione universale al sacrificio di Cristo, in cui il
Redentore ha offerto al Padre il mondo intero, e, in particolare, l’umanità,
fa sì che tutti nella Chiesa siano "un regno di sacerdoti" (Ap
5,10; cf. 1Pt 2,9), partecipino cioè non solo alla
missione sacerdotale, ma anche a quella profetica e regale di Cristo Messia.
Questa partecipazione determina, inoltre, l’unione organica della Chiesa,
come Popolo di Dio, con Cristo. In essa si esprime
nel contempo il "grande mistero" della lettera agli Efesini: la
sposa unita al suo sposo; unita, perché vive la sua vita; unita, perché
partecipa della sua triplice missione ("tria munera Christi");
unita in una maniera tale da rispondere con un "dono sincero" di sé
all’ineffabile dono dell’amore dello sposo, redentore del mondo. Ciò riguarda
tutti nella Chiesa, le donne come gli uomini, e riguarda ovviamente anche coloro che sono partecipi del "sacerdozio
ministeriale" (cf. 1Pt 2,10), che possiede il carattere di servizio.
Nell’ambito del "grande mistero" di Cristo
e della Chiesa tutti sono chiamati a rispondere - come una sposa - col dono
della loro vita all’ineffabile dono dell’amore di Cristo, che solo, come
redentore del mondo, è lo sposo della Chiesa. Nel "sacerdozio
regale", che è universale, si esprime contemporaneamente il dono della
sposa. Ciò è di fondamentale importanza per comprendere la Chiesa nella sua propria essenza, evitando di trasferire alla Chiesa -
anche nel suo essere un’"istituzione" composta di esseri umani ed inserita nella storia - criteri di
comprensione e di giudizio che non riguardano la sua natura. Anche se la Chiesa possiede una struttura "gerarchica"
(cf. 1Pt 2,18-19), tuttavia tale struttura è totalmente ordinata alla
santità delle membra di Cristo. La santità poi si misura secondo il "grande mistero", in cui la sposa risponde col dono
dell’amore al dono dello sposo, e questo fa "nello Spirito Santo",
poiché "l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo
dello Spirito Santo, che ci è stato dato" (Rm 5,5). Il Concilio Vaticano
II, confermando l’insegnamento di tutta la Tradizione, ha ricordato che nella
gerarchia della santità proprio la "donna", Maria di Nazaret, è
"figura" della Chiesa. Ella
"precede" tutti sulla via verso la santità; nella sua persona
"la Chiesa ha già raggiunto la perfezione, con la quale esiste
immacolata e senza macchia (cf. Ef 5,27. cf. "Lumen Gentium", 65;
cf. quoque "Lumen Gentium", 63; cf.
"Redemptoris Mater", 2-6). In questo senso si può dire che la
Chiesa è insieme "mariana" ed "apostolico-petrina"
("Questo profilo mariano è altrettanto - se non lo è di più -
fondamentale e caratterizzante per la Chiesa quanto il profilo apostolico e
petrino, al quale è profondamente unito... La
dimensione mariana della Chiesa antecede quella petrina, pur essendole
strettamente unita e complementare. Maria, l’Immacolata, precede ogni altro,
e, ovviamente, lo stesso Pietro e gli apostoli: non solo perché Pietro e gli
apostoli, provenendo dalla massa del genere umano che nasce sotto il peccato,
fanno parte della Chiesa "sancta ex peccatoribus", ma anche perché
il loro triplice "munus" non mira ad altro che a formare la Chiesa
in quell’ideale di santità, che già è preformato e prefigurato in Maria. Come
bene ha detto un teologo contemporaneo, "Maria è
Regina degli apostoli, senza pretendere per sé i poteri apostolici. Essa ha
altro e di più" ". "Allocutio ad
Patres Cardinales Romanaeque Curiae Praelatos", 3, die 22 dec. 1987:
Insegnamenti di Giovanni Paolo II, X, 3 [1987] 1484). Nella storia
della Chiesa sin dai primi tempi c’erano - accanto agli uomini - numerose
donne, per le quali la risposta della sposa all’amore redentore dello sposo
assumeva piena forza espressiva. Come prime vediamo quelle donne, che
personalmente avevano incontrato Cristo, l’avevano seguito e, dopo la sua
dipartita, insieme con gli apostoli "erano assidue nella preghiera"
nel cenacolo di Gerusalemme sino al giorno di Pentecoste.
In quel giorno lo Spirito Santo parlò per mezzo di "figli e figlie"
del Popolo di Dio, compiendo l’annuncio del profeta Gioele (cf. At 2,17).
Quelle donne, ed in seguito altre ancora, ebbero parte attiva ed importante
nella vita della Chiesa primitiva, nell’edificare sin dalle fondamenta la
prima comunità cristiana - e le comunità successive - mediante i propri
carismi e il loro multiforme servizio. Gli scritti apostolici annotano i loro
nomi, come Febe, "diaconessa di Cencre" (Rm 16,1), Prisca col
marito Aquila (cf. 2Tm 4,19), Evodia e Sintiche (cf. Fil
4,2), Maria, Trifena, Perside, Trifosa (cf. Rm 16,6.12). L’Apostolo
parla delle loro "fatiche" per Cristo, e queste indicano i vari
campi del servizio apostolico della Chiesa, iniziando dalla "Chiesa
domestica". In essa, infatti, la "fede
schietta" passa dalla madre nei figli e nei nipoti, come appunto si
verificò nella casa di Timoteo (cf. 2Tm 1,5). Lo stesso si
ripete nel corso dei secoli, di generazione in generazione, come dimostra la
storia della Chiesa. La Chiesa, infatti, difendendo la dignità della donna e
la sua vocazione, ha espresso onore e gratitudine per coloro che - fedeli al
Vangelo - in ogni tempo hanno partecipato alla missione apostolica di tutto
il Popolo di Dio. Si tratta di sante martiri, di vergini, di madri di
famiglia, che coraggiosamente hanno testimoniato la
loro fede ed educando i propri figli nello spirito del Vangelo hanno
trasmesso la fede e la Tradizione della Chiesa. In ogni epoca e
in ogni paese troviamo numerose donne "perfette" (Pr 31,10), che -
nonostante persecuzioni, difficoltà e discriminazioni - hanno partecipato
alla missione della Chiesa. Basta menzionare qui Monica, la madre di Agostino, Macrina, Olga di Kiev, Matilde di Toscana,
Edvige di Slesia ed Edvige di Cracovia, Elisabetta di Turingia, Brigida di
Svezia, Giovanna d’Arco, Rosa di Lima, Elisabeth Seton e Mary Ward. La testimonianza
e le opere di donne cristiane hanno avuto significativa
incidenza sulla vita della Chiesa, come anche su quella della società. Anche in presenza di gravi discriminazioni sociali le donne
sante hanno agito in "modo libero", fortificate dalla loro unione
con Cristo. Una simile unione e libertà radicata in Dio spiegano, ad esempio,
la grande opera di santa Caterina da Siena nella vita
della Chiesa e di santa Teresa di Gesù in quella monastica. Anche ai nostri giorni la
Chiesa non cessa di arricchirsi della testimonianza delle numerose donne che
realizzano la loro vocazione alla santità. Le donne sante sono una incarnazione dell’ideale femminile, ma sono anche un
modello per tutti i cristiani, un modello di "sequela Christi", un
esempio di come la sposa deve rispondere con l’amore all’amore dello sposo. VIII. Più grande è la carità Di fronte ai mutamenti 28. "La
Chiesa crede che Cristo, per tutti morto e risorto,
dà all’uomo, mediante il suo Spirito, luce e forza perché possa rispondere
alla suprema sua vocazione" ("Gaudium et Spes", 10). Possiamo
riferire queste parole della costituzione "Gaudium et Spes" al tema
delle presenti riflessioni. Il particolare richiamo alla dignità della donna
ed alla sua vocazione, proprio dei tempi in cui viviamo,
può e deve essere accolto nella "luce e forza" che lo Spirito
elargisce all’uomo: anche all’uomo della nostra epoca ricca di molteplici
trasformazioni. La Chiesa "crede... di trovare nel suo Signore e Maestro
la chiave, il centro e il fine" dell’uomo, nonché
"di tutta la storia umana" e "afferma che al di sotto di tutti
i mutamenti ci sono molte cose che non cambiano; esse trovano il loro ultimo
fondamento in Cristo, che è sempre lo stesso: ieri, oggi e nei secoli"
("Gaudium et Spes", 10). Con queste parole
la costituzione sulla Chiesa nel mondo contemporaneo ci indica
la strada da seguire nell’assumere i compiti relativi alla dignità della donna
e alla sua vocazione, sullo sfondo dei mutamenti significativi per i nostri
tempi. Possiamo affrontare tali mutamenti in modo corretto e adeguato solo se
riandiamo ai fondamenti che si trovano in Cristo, a quelle verità e a quei
valori "immutabili", di cui egli stesso rimane "testimone
fedele" (cf. Ap 1,5) e maestro. Un diverso modo di agire condurrebbe a
risultati dubbi, se non addirittura erronei e ingannevoli. La dignità della donna e l’ordine dell’amore 29. Il passo già
riportato dalla lettera agli Efesini (Ef 5,21-33), in cui il rapporto tra
Cristo e la Chiesa viene presentato come legame tra
lo sposo e la sposa, fa riferimento anche alla istituzione del matrimonio
secondo le parole del libro della Genesi (cf. Gen 2,24). Esso unisce la
verità sul matrimonio come primordiale sacramento con la creazione dell’uomo
e della donna ad immagine e somiglianza di Dio (cf. Gen 1,27;5,1). Grazie al significativo
confronto contenuto nella lettera agli Efesini acquista piena chiarezza ciò
che decide della dignità della donna sia agli occhi di Dio, creatore e
redentore, sia agli occhi dell’uomo: dell’uomo e della donna. Sul fondamento
del disegno eterno di Dio, la donna è colei in cui l’ordine dell’amore nel
mondo creato delle persone trova un terreno per la sua prima radice. L’ordine
dell’amore appartiene alla vita intima di Dio stesso, alla vita trinitaria.
Nella vita intima di Dio, lo Spirito Santo è la personale ipostasi
dell’amore. Mediante lo Spirito, dono increato, l’amore diventa un dono per
le persone create. L’amore, che è da Dio, si comunica alle creature:
"L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello
Spirito Santo, che ci viene dato" (Rm 5,5). La chiamata
all’esistenza della donna accanto all’uomo ("un aiuto che gli sia
simile") (Gen 2,18): nell’"unità dei due" offre nel mondo
visibile delle creature condizioni particolari affinché "l’amore di Dio venga riversato nei cuori" degli esseri creati a sua
immagine. Se l’autore della lettera gli Efesini
chiama Cristo sposo e la Chiesa sposa, egli conferma indirettamente, con tale
analogia, la verità sulla donna come sposa. Lo sposo è colui
che ama. La sposa viene amata: è colei che
riceve l’amore, per amare a sua volta. Il passo della
Genesi - riletto alla luce del simbolo sponsale della lettera agli Efesini -
ci permette di intuire una verità che sembra decidere in modo essenziale la
questione della dignità della donna e, in seguito, anche quella della sua
vocazione: la dignità della donna viene misurata
dall’ordine dell’amore, che è essenzialmente ordine di giustizia e di carità
(cf. S. Augustini "De Trinitate", L. VIII, VII,
10 - X, 14: CCL 50, 284-291). Solo la persona
può amare e solo la persona può essere amata. Questa è un’affermazione,
anzitutto, di natura ontologica, dalla quale emerge poi un’affermazione di
natura etica. L’amore è un’esigenza ontologica ed etica della persona. La
persona deve essere amata, poiché solo l’amore corrisponde a quello che è la
persona. Così si spiega il comandamento dell’amore conosciuto già nell’antico
testamento (cf. Dt 6,5; Lv 19,18) e posto da Cristo al
centro stesso dell’"ethos" evangelico (cf. Mt 22,36-40; Mc
12,28-34). Così si spiega anche quel primato dell’ amore
espresso dalle parole di Paolo nella lettera ai Corinzi: "più grande è
la carità" (cf. 1Cor 13,13). Se non si ricorre a
quest’ordine e a questo primato, non si può dare una risposta completa e
adeguata all’interrogativo sulla dignità della donna e sulla sua vocazione. Quando diciamo che la donna è colei che riceve amore per
amare a sua volta, non intendiamo solo o innanzitutto lo specifico rapporto
sponsale del matrimonio. Intendiamo qualcosa di più universale, fondato sul
fatto stesso di essere donna nell’insieme delle
relazioni interpersonali, che nei modi più diversi strutturano la convivenza
e la collaborazione tra le persone, uomini e donne. In questo contesto, ampio e diversificato, la donna rappresenta un
valore particolare come persona umana e, nello stesso tempo, come quella
persona concreta, per il fatto della sua femminilità. Questo riguarda tutte
le donne e ciascuna di esse, indipendentemente dal
contesto culturale in cui ciascuna si trova e dalle sue caratteristiche
spirituali, psichiche e corporali, come, ad esempio, l’età, l’istruzione, la
salute, il lavoro, l’essere sposata o nubile. Il passo della
lettera agli Efesini che consideriamo ci permette di
pensare ad una specie di "profetismo" particolare della donna nella
sua femminilità. L’analogia dello sposo e della sposa parla dell’amore con
cui ogni uomo è amato da Dio in Cristo, ogni uomo e ogni donna. Tuttavia, nel contesto dell’analogia biblica e in base alla logica
interiore del testo, è proprio la donna colei che manifesta a tutti questa
verità: la sposa. Questa caratteristica "profetica" della donna
nella sua femminilità trova la più alta espressione nella Vergine Madre di
Dio. Nei suoi riguardi viene messo in rilievo, nel
modo più pieno e diretto, l’intimo congiungersi dell’ordine dell’amore - che
entra nell’ambito del mondo delle persone umane attraverso una donna - con lo
Spirito Santo. Maria ode all’annunciazione: "Lo Spirito Santo scenderà
su di te" (Lc 1,35). Consapevolezza di una missione 30. La dignità
della donna si collega intimamente con l’amore che ella
riceve a motivo stesso della sua femminilità ed altresì con l’amore che a sua
volta dona. Viene così confermata la verità sulla
persona e sull’amore. Circa la verità della persona, si deve ancora una volta
ricorrere al Concilio Vaticano II: "L’uomo, il quale in terra è la sola
creatura che Iddio abbia voluto per se stessa, non può ritrovarsi pienamente
se non mediante un dono sincero di sé" ("Gaudium et Spes",
24). Questo riguarda ogni uomo, come persona creata ad immagine di Dio, sia
uomo che donna. L’affermazione di natura ontologica qui contenuta indica
anche la dimensione etica della vocazione della persona. La donna non può
ritrovare se stessa se non donando l’amore agli altri. Sin dal
"principio" la donna - come l’uomo - è stata creata e
"posta" da Dio proprio in questo ordine
dell’amore. Il peccato delle origini non ha annullato questo
ordine, non lo ha cancellato in modo irreversibile. Lo provano le
parole bibliche del Protoevangelo (cf. Gen 3,15). Nelle presenti riflessioni
abbiamo osservato il posto singolare della "donna" in questo testo
chiave della rivelazione. Occorre, inoltre, rilevare come la stessa donna,
che giunge ad essere "paradigma" biblico, si trovi
anche nella prospettiva escatologica del mondo e dell’uomo espressa
dall’Apocalisse (cf. Ad opera Sancti Ambrosii appendix
"In Apoc.", IV, 3-4: PL 17, 876; Ps. Augustini "De
symb. ad catech.", "sermo IV": PL 40,
661.). È "una donna vestita di sole", con la luna sotto i piedi e
una corona di stelle sopra il capo (cf. Ap 12,1). Si può dire: una
"donna" a misura del cosmo, a misura di tutta l’opera della creazione.
Nello stesso tempo essa soffre "le doglie e il
travaglio del parto" (Ap 12,2), come Eva "madre di tutti i
viventi" (Gen 3,20). Soffre anche perché "davanti alla donna che
sta per partorire" (cf. Ap 12,4), si pone "il grande
drago, il serpente antico" (Ap 12,9), conosciuto già dal Protoevangelo:
il Maligno, "padre della menzogna" e del peccato (cf. Gv 8,44).
Ecco: il "serpente antico" vuole divorare "il bambino". Se vediamo in questo testo il riflesso del Vangelo dell’infanzia
(cf. Lc 2,13.16), possiamo pensare che, nel paradigma biblico della
"donna", viene inscritta, dall’inizio sino
al termine della storia, la lotta contro il male e il Maligno. Questa è anche
la lotta per l’uomo, per il suo vero bene, per la sua salvezza. La Bibbia non
vuole dirci che proprio nella "donna", Eva-Maria, la storia
registra una drammatica lotta per ogni uomo, la lotta per il suo fondamentale
"sì" o "no" a Dio e al suo eterno disegno sull’uomo? Se la dignità della donna
testimonia l’amore, che essa riceve per amare a sua volta, il paradigma
biblico della "donna" sembra anche svelare quale sia il vero ordine
dell’amore che costituisce la vocazione della donna stessa. Si tratta qui
della vocazione nel suo significato fondamentale, si può dire universale, che
poi si concretizza e si esprime nelle molteplici
"vocazioni" della donna nella Chiesa e nel mondo. La forza morale
della donna, la sua forza spirituale si unisce con la consapevolezza che Dio
le affida in un modo speciale l’uomo, l’essere umano. Naturalmente, Dio
affida ogni uomo a tutti e a ciascuno. Tuttavia, questo affidamento
riguarda in modo speciale la donna - proprio a motivo della sua femminilità -
ed esso decide in particolare della sua vocazione. Attingendo a
questa consapevolezza e a questo affidamento, la
forza morale della donna si esprime in numerosissime figure femminili
dell’antico testamento, dei tempi di Cristo, delle epoche successive fino ai
nostri giorni. La donna è forte
per la consapevolezza dell’affidamento, forte per il fatto
che Dio "le affida l’uomo", sempre e comunque, persino nelle
condizioni di discriminazione sociale in cui essa può trovarsi. Questa
consapevolezza e questa fondamentale vocazione parlano alla donna della
dignità che riceve da Dio stesso, e ciò la rende "forte" e
consolida la sua vocazione. In questo modo, la "donna
perfetta" (cf. Pr 31,10) diventa un insostituibile sostegno e una
fonte di forza spirituale per gli altri, che percepiscono le grandi energie
del suo spirito. A queste "donne perfette" devono molto le loro
famiglie e talvolta intere nazioni. Nella nostra
epoca i successi della scienza e della tecnica permettono di raggiungere in
grado finora sconosciuto un benessere materiale che, mentre favorisce alcuni,
conduce altri all’emarginazione. In tal modo, questo
progresso unilaterale può comportare anche una graduale scomparsa della
sensibilità per l’uomo, per ciò che è essenzialmente umano. In questo
senso, soprattutto i nostri giorni attendono la manifestazione di quel
"genio" della donna che assicuri la sensibilità per l’uomo in ogni
circostanza: per il fatto che è uomo! E perché "più grande è la carità" (1Cor 13,13). Pertanto,
un’attenta lettura del paradigma biblico della "donna" - dal libro
della Genesi sino all’Apocalisse - conferma in che consistono la dignità e la
vocazione della donna e ciò che in esse è immutabile
e non perde attualità, avendo il suo "ultimo fondamento in Cristo, che è
sempre lo stesso: ieri, oggi e nei secoli" ("Gaudium et Spes",
10). Se l’uomo è affidato in modo speciale da Dio
alla donna, questo non significa forse che da lei Cristo si attende il
compiersi di quel "sacerdozio regale" (1Pt 2,9), che è la ricchezza
da lui data agli uomini? Questa stessa eredità Cristo,
sommo ed unico sacerdote della nuova ed eterna alleanza e sposo della Chiesa,
non cessa di sottomettere al Padre mediante lo Spirito Santo, affinché Dio
sia "tutto in tutti" (1Cor 15,28; cf. "Lumen
Gentium", 36). Allora avrà
compimento definitivo la verità che "più grande è la carità" (1Cor 13,13). IX. Conclusione "Se tu conoscessi il
dono di Dio" 31. "Se tu
conoscessi il dono di Dio" (Gv 4,10), dice Gesù alla Samaritana durante
uno di quei mirabili colloqui che mostrano quanta stima egli abbia per la
dignità di ogni donna e per la vocazione che le
consente di partecipare alla sua missione di Messia. Le presenti
riflessioni, ormai concluse, sono orientate a riconoscere all’interno del
"dono di Dio" ciò che egli, creatore e redentore, affida alla
donna, ad ogni donna. Nello spirito di Cristo, infatti, essa può scoprire
l’intero significato della sua femminilità e disporsi in tal modo al
"dono sincero di sé" agli altri, e così "ritrovare" se
stessa. Nell’anno mariano
la Chiesa desidera ringraziare la Santissima Trinità per il "mistero
della donna", e per ogni donna; per ciò che costituisce l’eterna misura
della sua dignità femminile, per le "grandi opere di Dio" che nella
storia delle generazioni umane si sono compiute in lei e per mezzo di lei. In
definitiva, non si è operato in lei e per mezzo di lei ciò che c’è di più
grande nella storia dell’uomo sulla terra: l’evento che Dio stesso si è fatto
uomo? La Chiesa,
dunque, rende grazie per tutte le donne e per ciascuna: per le madri, le
sorelle, le spose; per le donne consacrate a Dio nella verginità; per le
donne dedite ai tanti e tanti essere umani, che attendono l’amore gratuito di
un’altra persona; per le donne che vegliano sull’essere umano nella famiglia,
che è il fondamentale segno della comunità umana; per le donne che lavorano
professionalmente, donne a volte gravate da una grande
responsabilità sociale; per le donne "perfette" e per le donne
"deboli", per tutte: così come sono uscite dal cuore di Dio in
tutta la bellezza e ricchezza della loro femminilità; così come sono state
abbracciate dal suo eterno amore; così come, insieme con l’uomo, sono
pellegrine su questa terra, che è, nel tempo, la "patria" degli
uomini e si trasforma talvolta in una "valle di pianto"; così come
assumono, insieme con l’uomo, una comune responsabilità per le sorti
dell’umanità, secondo le quotidiane necessità e secondo quei destini
definitivi che l’umana famiglia ha in Dio stesso, nel seno dell’ineffabile
Trinità. La Chiesa
ringrazia per tutte le manifestazioni del "genio" femminile apparse nel corso della storia, in mezzo a tutti i popoli
e nazioni; ringrazia per tutti i carismi che lo Spirito Santo elargisce alle
donne nella storia del Popolo di Dio, per tutte le vittorie che essa deve
alla loro fede, speranza e carità: ringrazia per tutti i frutti di santità
femminile. La Chiesa chiede,
nello stesso tempo, che queste inestimabili "manifestazioni dello
Spirito" (cf. 1Cor 12,4s) che con grande
generosità sono elargite alle "figlie" della Gerusalemme eterna,
siano attentamente riconosciute, valorizzate, perché tornino a comune
vantaggio della Chiesa e dell’umanità, specialmente ai nostri tempi. Meditando il mistero biblico della "donna", la Chiesa
prega affinché tutte le donne ritrovino in questo mistero se stesse e la loro
"suprema vocazione". Maria, che
"precede tutta la Chiesa sulla via della fede, della carità e della
perfetta unione con Cristo" (cf. "Lumen Gentium", 63), ottenga
a tutti noi anche questo "frutto", nell’anno che abbiamo dedicato a
lei, alle soglie del terzo millennio della venuta di
Cristo. Con questi voti
imparto a tutti i fedeli e in special modo alle donne, sorelle in Cristo, la
benedizione apostolica. Dato a Roma,
presso San Pietro, il 15 del mese di agosto -
solennità dell’Assunzione di Maria santissima - dell’anno 1988, decimo di
Pontificato. |