IMMUTABILE PROFESSIONE DI FEDE di Umberto Betti, O.F.M. Commento sulla Dichiarazione Nell’udienza generale del 19 gennaio
scorso (1972), il Papa disse che per la Chiesa, custode e interprete del
deposito rivelato, l’ortodossia è la sua prima preoccupazione; la consegna di
S. Paolo: depositum custodi (1 Tm 6, 20; 2 Tm 1, 14) costituisce per essa un tale impegno che sarebbe
tradimento violare (cfr. L’Osservatore
Romano, 20 gennaio 1972, p. 1). Quelle parole non enunziavano solo un
principio dottrinale. Tutto sta ad indicare che alludevano anche ad una
situazione concreta. Opinioni disgregatrici della fede qua e là non mancano.
E se il Magistero non le denunziasse per quel che sono, sarebbe infedele alla
sua missione primaria di servitore
della Parola di Dio. A preoccupante processo corrosivo sono
esposti anche i misteri fondamentali del cristianesimo, quali sono i misteri
dell’ Incarnazione del Figlio di Dio e della Santissima Trinità. E con gli
effetti che sappiamo: “Ecco che molti fedeli sono turbati nella loro fede da
un cumulo di ambiguità, d’incertezze e di dubbi che toccano la fede in quel
che essa ha di essenziale. Tali sono i dogmi trinitario e cristologico ...”
(PAOLO VI, Esort. Quinque iam anni,
in Insegnamenti di Paolo VI, VIII,
1970, p. 1420). Per avviare un discorso più circostanziato
al riguardo, non saranno fuori posto poche riflessioni, per quanto
elementari. Se non altro, esse serviranno a meglio individuare qualche errore
su quei due misteri, affiorante e circolante in molte maniere. 1. Certi errori sul mistero cristologico e
su quello trinitario feriscono a morte la fede cristiana, operandone il
distacco dalla sua sorgente, che è la Rivelazione divina. Questa non ci
direbbe nulla della vita intima di Dio, che è vita trinitaria in quanto il
Padre genera il Figlio, il Figlio nasce dal Padre e lo Spirito Santo procede
da tutt’e due, senza inizio e senza fine. Dio si rivelerebbe, quindi,
soltanto nell’economia della salvezza e in funzione della medesima: in quanto
fa, non in quel che è. Al di sopra e indipendentemente dalla sua azione
salvifica, non si sa niente di lui. Da questa premessa, alcune conseguenze si
danno già come scontate. Abbandonato il mistero del Figlio di Dio,
eternamente uguale al Padre anche se incarnatosi per noi nel tempo, non
rimane altro Figlio di Dio che la così detta persona umana di Gesù qual è
apparso sulla terra; il quale, come ogni altro essere umano, ha come
connotato immediato la temporalità della sua esistenza. Abbandonato, poi, il
mistero dello Spirito Santo, inteso come persona della Trinità eterna, non
rimane da riconoscere altro Spirito all’infuori della potenza mediante la
quale Gesù glorificato costituisce la comunità dei credenti e santifica la
Chiesa. E, infine, se il Padre non è più colui che genera il Figlio,
eternamente Dio con lui e con lo Spirito Santo, la sua paternità si riduce
solo al fatto che egli è padre degli uomini e, in modo del tutto speciale,
dell’uomo Gesù, nel quale, più che in ogni altro, attualizza la sua presenza. Ma questo concetto così limitativo della Rivelazione
non esaurisce affatto la portata e la forza della Rivelazione stessa. E’ vero che Dio si è rivelato attraverso
gli eventi salvifici, mediante i profeti, e soprattutto mediante Gesù Cristo.
E’ però altrettanto vero che tali interventi divini, opere, persone e parole,
danno testimonianza di un’origine che sorpassa ogni dato meramente empirico,
e ci portano a contemplare il mistero di Dio uno e trino come principio di
tutta l’economia della salvezza. Questo mistero rivelato alla nostra fede va
ben al di là delle capacità intellettive umane. Ma quel che Dio ci fa fin
d’ora vedere in maniera confusa (cfr. 1 Cor
13, 12) basta a darci fiducia anche nel suo silenzio, in attesa che la piena
chiarezza che esso avvolge venga svelata nella visione riservata all’altra
vita (cfr. Conc. Vat. II, cost. dogm. Dei
Verbum, n. 7). Il complesso dei misteri nascosti in Dio,
che ci sono proposti a credere (cfr. Conc. Vat. I, cost. dogm. Dei Filius, cap. IV: DZ: SCH: 3015),
riguarda prima di tutto l’essere di Dio stesso nostra salvezza. Aboliti
questi, perdono di senso tutti gli altri. Né ci sarebbe più posto per la fede; la
quale è, per natura, assicurazione di ciò che si spera e prova di realtà che
non si vedono (cfr. Eb 11, 1). Ed è
meritoria nella misura in cui essendo, proprio per questo, ugualmente
difficoltoso prestarla (cfr. S. Gregorio M., Homil. in Evang. 26, 1: PL 76, 1197), si risolve in atto d’amore,
come risposta all’attrattiva segreta del Padre verso il suo Figlio unigenito
(cfr. Gv 6, 44; Conc. Vat. II,
cost. dogm. Dei Verbum, n. 5). Ulteriori considerazioni sulle rovinose conseguenze degli errori appena
ricordati saranno a conferma di quanto ora accennato. 2. Lo sforzo di dare al mistero dell’Incarnazione
espressioni concettuali differenti da quelle con le quali la Chiesa ha
espresso la sua fede, porta in realtà, pur senza l’intenzione di adulterarne
il senso originario, a modificare lo stesso contenuto della fede. Se infatti,
in conformità di tale fede, Gesù non è ritenuto più una Persona divina che ha
assunto una natura umana, e lo si considera invece una persona umana dotata
di tutta la perfezione ontologica di sussistenza propria, il mistero
cristologico viene interamente capovolto. Cristo è ridotto a soggetto creato che, per
quanto potenziato fino ad una certa identificazione di Dio con lui, è
destituito della unicità insita nella sua eterna generazione del Padre. Se di
preesistenza si può parlare, essa va intesa solo come indipendente dal tempo
purché voluta da Dio fin dall’eternità, ma non al di fuori del tempo nel
quale soltanto si è attuata. Una preesistenza, dunque, non diversa da quella
di ciascuno di noi e di tutta la creazione. Il rapporto, poi, di Cristo col Padre, per
quanto unica sia l’intensità personale che lo contraddistingue, rimane un
rapporto che ha avuto inizio con l’esistenza di Gesù. Perciò quello che
l’attività di Cristo comporta di divino non è da ascriversi al suo essere
Dio, a causa della persona eterna del Verbo nella quale la sua umanità
esiste; ma deriva dall’essere e dall’agire di Dio in lui e per mezzo di lui.
E allora non si può più dire che le azioni sante di Gesù e la passione da lui
liberamente accettata siano proprie di Dio; perché sono tali solo se sono
azioni e passione del Figlio eternamente generato dal Padre e, per questo
motivo, hanno davanti a lui un valore salvifico infinito. Il mistero cristologico così capovolto
viene ad essere irrimediabilmente distrutto. Ogni tentativo di ricostruirlo
si risolve, in fondo, in una denaturazione nuova. E’ questo il caso dell’affermazione
secondo la quale, per la singolare presenza di Dio in lui, Gesù è il culmine
supremo e definitivo della Rivelazione. Pur trattandosi, infatti, di una
qualifica che pone Cristo al di sopra di ogni altro essere creato, tuttavia
questa superiorità non è inerente a Cristo per il fatto che la sua umanità
esiste in quanto assunta nella persona divina, e perciò egli esiste come uomo
non altro che perché esiste come Dio. Quella superiorità gli proverrebbe, al
contrario, dall’azione dominatrice di Dio nella sua supposta persona umana.
Dire insomma che Cristo è il rivelatore senza però essere l’Unigenito che,
pur facendosi uomo, rimane nel seno del Padre, è dire che egli è soltanto il
supremo mediatore tra Dio e noi nell’ordine della rivelazione; e non la
pienezza della rivelazione stessa (cgr. Conc. Vat. II, Cost. Dei Verbum, nn. 2 e 4), in quanto
Verbo eterno di Dio che si è fato uomo ed abitò tra noi (cfr. Gv 1, 1-18). Perciò in rapporto alla
Rivelazione, Cristo susciterebbe, certo, un fascino di adesione; ma non
potrebbe anche comandarne l’accettazione in suo nome, quale fidei clementissimus imperator (S.
AGOSTINO; Epist. 118, V, 32: CSEL 34, 696), pur lasciando a tutti tutta la libertà, anche
quella dei disertori (cfr. Gv 6,
67). Conduce ugualmente alla perdita
dell’autentica fede nella divinità di Cristo l’affermazione secondo la quale
egli può dirsi Dio, in forza della singolare presenza di Dio nella così detta
persona umana di Gesù. A meno che non si voglia indulgere a contraddizioni
lampanti, questa presenza non basta da sola a far sì che nella sua infinità
si identifichi con una persona finita; né vale a far di Dio il soggetto
ultimo della umanità di Gesù, perché ciò imporrebbe la cessazione della
medesima come persona umana. Dicendo dunque che Gesù è una persona umana e
che ciò nonostante può essere confessato come Dio, si incorre in un
controsenso insanabile. Non si può, infatti, far di Dio un titolo decorativo.
Uno lo è o non lo è. Cristo, dunque, può e deve dirsi Dio
soltanto se lo si considera come vero Figlio di Dio, con tutto il peso
dommatico che, non di rado, a questa espressione è attribuito dal Nuovo
Testamento e che la fede della Chiesa, con tremore eppur con sicurezza,
propone in questi termini: la umanità di Gesù non deriva la sua esistenza da
una corrispondente persona umana che non ha, ma esiste solo in quanto e
perché assunta nella persona divina dell’eterno Figlio di Dio. Se così non fosse,sarebbe del tutto
infondato il culto di adorazione a Cristo anche nella sua umanità, culto che
è ad essa dovuto appunto perché è l’umanità di Dio vero generato da Dio vero.
Né si potrebbe, in senso proprio, adorare il Santissimo Sacramento
dell’Eucaristia con l’adorazione ad essa dovuta appunto perché sotto le
apparenze del pane e del vino noi incontriamo con tutta certezza il Figlio
eterno di Dio nella sua divinità non meno che nella sua umanità; altrimenti
la gioia orante della Chiesa dovrebbe ormai lasciare il posto al pianto della
Maddalena accanto al sepolcro vuoto: “ Hanno portato via il mio Signore, e
non so dove l’hanno messo ” (Gv 20,
13). E lo stesso si dica di tutte quelle verità ed espressioni della
fede che hanno Cristo come oggetto diretto e principio costitutivo. 3. Messa in dubbio e, comunque, non
concretamente considerata, la preesistenza eterna del Verbo fattosi uomo,
anche il mistero trinitario, inteso come Trinità immanente e immutabile, è
demolito alla radice. Si tenta allora, non senza intenzione di
salvare in qualche modo il domma, di riconoscere una trinità intesa nel senso
che Dio è divenuto trinitario nell’economia della salvezza. Ma con quali
conseguenze basteranno ad indicarlo poche considerazioni che ripetono in
parte quanto detto prima. L’azione salvatrice di Dio mediante il
Figlio si realizzerebbe con la elevazione dell’uomo Gesù a rango divino, che
ne fa il Figlio di Dio dal momento stesso di tale elevazione, iniziata nel
tempo come nativamente temporale è l’esistenza di Cristo. L’azione salvatrice di Dio mediante lo
Spirito Santo verrebbe identificata con la potenza santificante comunicata
alla Chiesa da Cristo glorioso. Se dunque lo Spirito Santo non sussiste nel
mistero stesso di Dio, non si vede come egli possa esser chiamato Dio e,
anzi, come possa essere ancora considerato una persona. Rimarrebbe la persona del Padre. Ma questa
paternità non è caratterizzante, e da sempre, all’interno della vita divina.
Sta piuttosto ad indicare che Dio si comporta come padre con gli uomini; i
quali sono chiamati a divenire suoi figli attraverso Gesù, il Figlio per
eccellenza, e attraverso lo Spirito Santo, dono del Padre e del Figlio alla
comunità credente. Che dire di una speculazione del genere
sul mistero trinitario? Basterà un riferimento al passato non tanto remoto,
con una semplice valutazione al riguardo. Questa, e con le debite
proporzioni. E’ da pensare che non fossero delle malelingue quei buoni
luterani che per la celebre opera L’essenza
del Cristianesimo di A. Harnack – il quale si era arroccato su posizioni
analoghe a quelle ricordate, e che neppure da suo padre era più considerato
un teologo cristiano – reclamavano che il titolo fosse cambiato in L’essenza del Giudaismo (cfr. J. DE
GHELLINCK, Patristique et moyen-âge,
III, Gembloux, 1948, pp. 90 e 97, n. 3). Quando la frontiera cristiana è così
regressivamente ridotta, non resta che prenderne atto. Ma sanno i membri del Popolo di Dio di
essere stati generati a nuova vita, nell’Alleanza nuova, mediante il
battesimo nel nome di tre Persone eterne in un solo Dio: il Padre, il Figlio
e lo Spirito Santo (cfr. Mt 28,
19). Sanno i fedeli che, facendosi il segno della Croce, intendono proclamare
la loro consacrazione alla adorabile Trinità divina, dalla quale trae origine
la Chiesa come “ popolo adunato nell’unità del Padre, del Figlio e dello
Spirito Santo ” (cfr. Conc. Vat. II, cost. dogm. Lumen gentium. n. 4). 4. Di fronte ai misteri cristologico e
trinitario, come del resto di fronte agli altri misteri, la Chiesa non può,
certo, trincerarsi in un fissismo orante, come se tutto fosse già stato
detto. Ha il dovere di trasmettere la fede nella sua pienezza e in maniera
adeguata agli uomini e ai tempi, sforzandosi di usare un linguaggio facilmente
accessibile per arrivare a scoprire, attraverso l’insufficienza delle parole
umane, tutto il messaggio di salvezza (cfr. PAOLO VI, esort. ap. Quinque iam anni; Insegnamenti di Paolo VI,
VIII, 1970, p. 1419). Mai però essa potrà infrangere il margine
abbondante di non dimostrabilità razionale che la fede comporta. Il credere
resterà sempre la condizione congenita del suo sapere. Le sue enunciazioni dommatiche, per quanto
aperte ad ulteriori spiegazioni, esprimono verità immutabili che le precedono
e le trascendono. Questo vuol dire che resta immutabile la fede nelle persone
eterne della Trinità e nell’unico e medesimo Cristo Figlio di Dio,
eternamente generato dal Padre secondo la natura divina e generato nel tempo
da Maria Vergine secondo la natura umana. La Chiesa – disse ancora il Papa nel
discorso col quale abbiamo iniziato – “ per quanto riguarda le verità proprie
del messagio cristiano, si può dire conservatrice, intransigente; ed a chi la
sollecita di rendere più facile, più relativa ai gusti della mutevole
mentalità dei tempi la sua fede, risponde con gli Apostoli: Non possumus, non possiamo (Act 4, 20) ” (cfr. L’Osservatore Romano, 20 gennaio 1972,
p. 1). Se così non fosse, essa sarebbe ritenuta inattendibile in quanto ha
insegnato e creduto fin qui. E perderbbe ogni credibilità per l’avvenire. Proprio per riaffermare la fedeltà della
Chiesa di sempre e per sempre, Paolo VI ha riproposto la professione di fede nei
misteri dell’Incarnazione della Trinità: la stessa in Piazza S. Pietro a Roma
il 30 giugno 1968 e nella cripta della cattedrale di Sydney il 1° dicembre
1970 (cfr. Insegnamenti di Paolo VI,
VI, 1968, pp. 292-294; VIII, 1970, pp. 1309 s.). * * * Nella situazione concreta sommamente
descritta viene a collocarsi la recente Dichiarazione Mysterium Filii Dei della Sacra Congregazione per la Dottrina
della Fede del 21 febbraio 1972, ratificata dal Sommo Pontefice e promulgata
per suo comando (cfr. L’Osservatore
Romano, 10 marzo 1972, p. 1). Con “ questo atto rilevante del Magistero
ecclesiastico ” – come ha detto il Santo Padre rivolgendosi ai fedeli
domenica 12 marzo – “ la Chiesa ha levato la sua voce per difendere due
verità fondamentali della nostra fede: l’unità e la trinità di Dio, e la
divinità di Gesù Cristo ” (cfr. L’Osservatore Romano, 13-14 marzo 1972, p.
1). Da una prima lettura della Dichiarazione
appare subito che il linguaggio usato, come si conviene ad un documento del
genere, è tecnicamente calibrato in ogni espressione ed in tutti i risvolti.
Spetterà quindi a persone tecnicamente qualificate farne oggetto di attenta
considerazione e di appropriata spiegazione e divulgazione. Ma fin d’ora è lecito anticipare l’effetto
rasserenante che da essa è da attendersi: quello che tutti, se necessario
anche attraverso una momentanea tristezza, ritrovino in pienezza la gioia e
la pace nel loro atto di fede (cfr. 2 Cor
7, 8-10; Rm 15, 13). |